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A Venezia le finestre si affacciano ovunque, come se le case fossero corpi in cerca di respiro: spuntano dai tetti, rasentano (e sfidano) l’acqua, si aprono in qualunque muro che offra un’esposizione promettente. Spesso, specie nell’edilizia minuta, la loro distribuzione sulle facciate è talmente irregolare da sembrare la negazione di qualunque logica: invece la logica c’è sempre, e rispetta l’irregolarità interna delle case, fatta di architetture levantine che si arrampicano una vicina all’altra, di scale che salgono parallele e nascoste, per servire un piano soltanto, a qualunque altezza esso sia. La ricerca della luce è evidente anche nella regolarità dei palazzi patrizi, quelli che hanno disegnato i profili della città con la finezza di un merletto. Bifore, trifore, quadrifore, serliane sono moltiplicazioni di finestre e sottrazioni di pareti. Sono modi, cioè, per trasformare il buio in luce.
Le “veneziane” sono qui
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Se le finestre ricche sono ammantante di tende opulente, quelle minori mantengono la tradizione delle “veneziane”: tende verticali a lamelle orizzontali non più, ormai, in legno, ma di metallo o di plastica, nei tipici colori slavati, verdino, azzurrino, sempre confinanti con un tenero squallore. Talvolta ci s’imbatte – anche nell’intoccabile Canal Grande – in edifici antichi che sono stati privati delle vecchie finestre a due ante, col montante verticale al centro, che vengono sostituite dalle più luminose finestre a lastra unica. Il risultato estetico è che là dove c’era un elemento diviso, un “segno” in più sulla facciata, ora c’è un elemento unico, geometricamente netto, dai riflessi a specchio. Spesso è un contrasto di stili, ma soprattutto è un impoverimento del disegno complessivo dell’edificio, una superficie storica sfondata da “buchi” moderni.
Facciate costruite per captare la luce
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La massima espressione di questo concetto è evidente in Piazza San Marco. L’architettura delle Procuratie vecchie e nuove è un susseguirsi incessante di finestre, senza interruzioni e senza accentuazioni ritmiche, con uguale intensità su ciascun lato della piazza; qui la pietra non è altro che struttura e supporto, lo scheletro di una costruzione virtualmente trasparente. Quelle lunghe sequenze di finestre, che in due ordini sormontano i portici, che cos’altro sono se non l’invenzione della facciata continua? Oggi siamo abituati a ben altri supporti tecnici: il metallo ha preso il posto della pietra, le strutture sono diventate essenziali, le superfici sono regolari e levigate. Ma il concetto è rimasto lo stesso: catturare più luce possibile, espanderla all’interno e dare a quella luce un valore architettonico all’esterno. Le finestre “ricche” a Venezia sono grandi, importanti, eleganti. Gli infissi sono di legno, i vetri spesso sono a cerchi piombati, talvolta colorati, le lastre piane sono sempre tremolanti. Il vetro “tremulo” è quello antico di almeno sessant’anni, quando le macchine non erano ancora in grado di produrre lastre perfette; le ondeggiature della superficie, che in realtà sono sintomi d’imperfezione, danno alla luce il calore del fiato; la trasparenza non possiede l’asettica perfezione dei vetri recenti, ma assume qualcosa di indefinibilmente umano. Anzi, è facile scoprire quando un vetro, in una facciata, è stato sostituito di recente: basta un riflesso, e si ha il confronto tra una lastra gelida, tagliente, e un’altra che trasfigura un’immagine con il suo filtro romantico.
Le Finestre ricche e finestre povere
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Le finestre dei palazzi, sui canali o nei campi, sono esplosioni di luce, sembrano catturare albe e tramonti per trasmetterli all’interno, su pareti a stucco, soffitti affrescati, pavimenti in graniglia, porte laccate, mobili intagliati. La luce di Venezia, che rimbalza sull’acqua, valorizza ed esalta qualunque bellezza. La luce è stata, nel tempo, la ricchezza più preziosa della Serenissima: quella che ha spinto architetti, pittori e scultori alla ricerca di forme e di colori che interpretassero una natura radiosa. Anche musicisti, se si accetta l’astrazione: la musica di Vivaldi è un trionfo di luce, e gli acuti dei suoi archi sono abbaglianti come delle lame. Le finestre “povere”, invece, non esprimono gioia e sicurezza, ma ansia: l’ansia di vincere il buio e l’umidità. Ai piani terreni sono nascoste dietro semplici ferri che le difendono. Anche nei piani più alti sono piccole, e la loro dimensione fa intuire gli spazi spesso angusti degli interni. Quelle povere, più di quelle ricche, all’esterno hanno sempre qualche vaso: raramente di piante fiorite, spesso di piante grasse incuranti del clima, facili da dimenticare. Talvolta vi è infilzata anche una girandola multicolore, pronta a prendere il vento: per il turista è un bizzarro ornamento, per il veneziano è una difesa dai colombi, uno spaventapasseri da balcone.
Dietro scuri e persiane, l’intimità dei veneziani
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Anche le finestre dormono. A sera gli scuri vengono avvicinati, per riparare e difendere. Le persiane dei palazzi nobili sono sagomate secondo gli archi, perlopiù gotici, che contengono le finestre: la fisionomia notturna dunque non cambia; semplicemente un elemento cieco si sovrappone a quello trasparente. Di giorno quegli scuri non si vedono, perché vengono appoggiati agli stipiti dove scompaiono chiudendosi a fisarmonica. Nelle case nate per il popolo le persiane invece sono più semplici, sono assi di legno, spesso corrose dal tempo e dalla salsedine, che si aprono e che si appoggiano al muro, sul quale diventano altrettante campiture colorate: verde, marrone, ma talvolta anche bianco o grigio. Fanno parte delle facciate, quelle persiane, e contribuiscono alla loro architettura, anche se si tratta di elementi esterni e mobili. Anzi, la loro mobilità è un indice di vita: mai una facciata è uguale a sé stessa, ogni persiana può essere chiusa, socchiusa, un’anta aperta e una chiusa, una appoggiata al muro e l’altra vagante, libera sulle cerniere. E’ la stessa vita della casa: gli scuri si aprono o si chiudono secondo le attività delle persone, l’ora del giorno, i picchi di luce. E con i loro movimenti la casa racconta di sé ai passanti, spiega se all’interno c’è qualcuno, se riposa o è sveglio, se è allegro o riflessivo. Ma gli scuri, questi umili ma poetici elementi che compongono le finestre, sempre più spesso vengono abbandonati. Molti ristrutturatori privi di sensibilità lasciano i perni in ferro sulle cornici di pietra, e non rimontano le ante. Le facciate restano più regolari ma prive di vita, senza tracce di passaggi umani. E il paesaggio urbano si snatura. Che peccato.
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