Domenica 28 Aprile 2024 - Anno XXII

Indonesia: vita all’ombra dei vulcani

Storia di un incontro con le genti dell’Indonesia e della Malaysia. Grandi popoli che vivono all’ombra di vulcani. Alberto Bagus, autore di “La cintura di fuoco”, edito da Ibiskos Editrice, è il racconto dei suoi viaggi. Un uomo in fuga, come lui stesso si definisce. Il libro prende il nome dalla fila di vulcani attorno all’Oceano Pacifico che cominciano proprio dall’Indonesia con il Krakatoa

La copertina del libro di Alberto Bagus, Ibiskos Editrice
La copertina del libro di Alberto Bagus, Ibiskos Editrice

Ottanta chilometri a sud di Jakarta il terreno incomincia a salire. Le prime pendici della catena di vulcani che attraversa tutta l’isola. Su di esse, ad una quota sufficiente da rinfrescare l’aria, sorge Bogor. È conosciuta per i suoi giardini, Kebun Raya, i giardini del Re. Per arrivare a Bogor si prende dalla stazione Gabir di Jakarta la metropolitana di Tokio. Già. È accaduto che il governo giapponese abbia regalato a quello indonesiano le carrozze smesse della metropolitana di Tokio quando è stata sostituita con una più moderna. La compagnia ferroviaria indonesiana le ha utilizzate per un percorso breve, perché una carrozza di metropolitana, non ha sedili atti a viaggi lunghi. Come ogni metropolitana è allestita con sedili lungo i fianchi, pali ed appigli al centro per sostenersi. Non  si son o nemmeno preoccupati di togliere le scritte giapponesi  da porte e finestre, tanto meno i pannelli d’indicazione delle fermate della linea che le carrozze servivano. In fondo sono scritte giapponesi, nessuno le capisce. I caratteri katakana sono molto astratti, sembrano decorazioni. Hanno solo aggiunto all’esterno delle scritte indonesiane. Così la metropolitana di Tokyo ora viaggia in una foresta di palme e banani alla volta di Bogor. Un viaggio pittoresco lungo una linea che negli ultimi chilometri serpeggia in mezzo ad una foresta lussureggiante. Termina in una stazione di paese.
Secondo le dimensioni indonesiane, infatti, Bogor è poco più che un paese. Ha solo settecentomila abitanti. La stazione è una gran tettoia con un edificio bianco. È occupata dal popolo che la usa quale favorevole luogo per il picnic al riparo dai piovaschi improvvisi del monsone. Quando arriva il treno, si spostano dalle rotaie per far posto al convoglio. Il manovratore sa, perciò entra in stazione lentamente.

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Il sistema di trasporto Bejak
Il sistema di trasporto Bejak

A Bogor si entra nell’Indonesia rurale. Fuori della stazione c’è un esercito di bejak. Il bejak è un sistema di traporto popolare in Asia che assume nomi diversi nelle diverse lingue. C’è in Vietnam, c’è in Cambogia e c’è in Tailandia. Si tratta di un trasporto a pedali. Uguale al cyclo vietnamita, il bejak è un triciclo. Nella parte anteriore ha due ruote ed una panca, nella posteriore una ruota azionata dai pedali del ciclista. Anche a Jakarta si vedono i bejak, ma sono oggetti lenti, le dimensioni della capitale ne sconsigliano l’uso. A Bogor invece tutto è piccolo ma è tutto in salita, cosa cui non ho pensato.
Per i giardini di Bogor, si deve fare una camminata di un chilometro. Oppure ci si affida a un bejak di un vecchio indonesiano sdentato che parte gagliardo nei primi cinquanta metri pianeggianti, compie i successivi duecento metri sull’onda della velocità acquisita e rallentando a mano a mano arranca più lentamente di un uomo a piedi. La fatica del vecchio fa sentire un po’ in colpa. Quando mi piove sulla nuca qualche goccia del suo sudore, mi sembra ora di dichiarare d’essere arrivati. Le porte del parco sono ormai in vista. Il vecchio, ansimando, ringrazia.

Amorphophallus titanum
Amorphophallus titanum

I giardini del Re sono un prodotto coloniale. È una cosa evidente perché a loro interno si trovano alcuni impressionanti e bellissimi alberi di ceiba, l’albero sacro ai Maya. Un’ovvia importazione dall’America centrale. Sono i giardini botanici nei quali ci si può perdere con piacere, camminando lungo ampi sentieri che serpeggiano tra una vegetazione imponente.
D’imponente in Indonesia si trova il fiore più grande del mondo. Si chiama Amorphophallus titanum. È un fiore gigantesco, alto quanto un uomo di media statura. È un grande calice, una gonna rovesciata do colore viola che ricade in parte su se stessa. La sua corolla conica non è costituita da petali ma da un’unica membrana che sembra uno spesso tessuto. Il viola accesso contrasta con il biancore del pistillo per il quale bisognerebbe coniare un nuovo vocabolo di pistillone o, più grezzamente, pistolone, da cui a ben guardare deriva il nome botanico. Tale pistillone esce dal calice del fiore e tutto orgoglioso nella sua altezza di quasi due di metri, diffonde il suo insopportabile odore.
In alcune macchie di bosco fitto con piante maestose, si scorge sulle lontane cime degli alberi un continuo movimento: delle colonie di pipistrelli. Quando s’involano librandosi ad ali spiegate, quasi spaventano con la loro apertura alare di almeno un metro. Stranamente volano di giorno. Quando passano sopra la testa, illuminati dalla luce del cielo, si vedono le loro scheletriche forme nere che sfumano nel marrone traslucido della membrane alari. Sono impressionanti. Tra alberi di ceiba, fiori mostruosi e pipistrelli giganti sembra di aver fatto un tuffo nel giurassico superiore, tutto per solo mezzo dollaro, il prezzo del biglietto d’ingresso.

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