Benvenuti in Paradiso. Non c’è bisogno di richiamarsi alle più svariate indagini sociologiche che da anni pongono Belluno nelle primissime posizioni della classifica sulla qualità della vita. Basta aprire gli occhi e allargare i polmoni in una giornata smagliante come questa, con il sole che scolpisce i lineamenti urbani e la parete dello Schiara, per rendersi immediatamente conto del perché, secondo un antico termine celtico, Belluno starebbe per «la splendente», «la luminosa».
Gli uomini però non sono fatti per il Paradiso e dove non ci sono problemi se li creano ad arte, mentre in compenso i problemi reali li lasciano marcire sotto il tappeto, finché il tappeto non viene distrutto dalle tarme. Mi spiego subito con qualche esempio. Il leghista Gentilini, già sindaco della vicina Treviso, ha evidentemente fatto scuola, se per evitare il chiasso di quattro ubriaconi quattro in piazza dei Martiri si è pensato bene anche qui di impiantare nuove panchine: le cosiddette «panchine antiubriachi», dove è impossibile sdraiarsi.
A raccontarmelo, tra l’immalinconito e il divertito, è il giornalista Toni Sirena, che davanti a un bicchiere di vino bianco mi rammenta anche come parte della popolazione a un certo punto abbia storto il naso per la presenza domenicale, sulla medesima piazza dei Martiri, di poche decine di badanti ucraine dedite alle loro ciacole in lingua.
In breve: gli immigrati sono buoni per lavorare, ma per cortesia, evitino di comparire all’ora dello struscio o nelle feste comandate.
Belluno: Viaggio al centro della provincia
Quisquilie, direte voi. E in effetti lo sono, rispetto a ben altri drammi legati al fenomeno migratorio. Ma qui tutto è piccino picciò. A cominciare dalle dimensioni di Belluno, che «negli ultimi cento anni» – sono sempre parole di Sirena – «è cresciuta da venticinquemila a trentacinquemila unità, mentre la vicina Trento è triplicata, passando da trenta a centomila. Con il decadere progressivo dell’agricoltura e dell’economia alpina, Belluno si è trasformata quasi esclusivamente in centro amministrativo. Perché le industrie esistono eccome, e anche di prim’ordine, ma sono nel resto della Val Belluna. O ad Agordo, sede storica della Luxottica. Anche il commercio legato al turismo è in una fase di stanca, ora, parzialmente risollevato dalla recente mostra di Tiziano, che ha portato più di centotrentamila visitatori. Una cifra impressionante».
Insomma, se ho ben capito, proprio nel momento in cui primeggia in termini di «qualità ambientale», Belluno conosce la più grave crisi d’identità della sua storia recente. Per la semplice ragione che la sua natura di centro amministrativo è sempre meno rilevante, visto che le decisioni di fondo non vengono prese qui, ma altrove: a Venezia, in sede regionale, e più in generale nell’area metropolitana del Veneto.
A dire il vero, quella di Belluno città fantasma non è una storia del tutto nuova. Per rendersene conto, basta andare a spasso per le strade del centro storico facendosi accompagnare dalle pagine di un illustre bellunese, Dino Buzzati, il quale rammentava come quei pochi connazionali che sapevano dell’esistenza della sua città natale, immancabilmente la collocavano in Friuli e le riconoscevano l’unico vanto di essere un vivaio di balie e bambinaie, cameriere e domestiche. Per aggiungere poi:
Se qualsiasi italiano di qualsiasi regione proclama che la sua terra è stupenda e ci sono meravigliosi monumenti e meravigliosi paesaggi e così via, nessuno trova niente da ridire. Ma se io dico che la mia terra è uno dei posti più belli non già dell’Italia ma dell’intero globo terracqueo, tutti cascano dalle nuvole e mi fissano con divertita curiosità.
Valeva allora e vale oggi; visto che, come noto, da Belluno si passa soltanto di sfuggita, per recarsi a Cortina. Del resto, la generalizzata ignoranza geografica non riguarda soltanto il capoluogo: quanti italiani sanno che tre quarti delle Dolomiti sono, per l’appunto, in provincia di Belluno? E che si presentano giusto a ridosso del centro abitato, segnato fin dalla sua immagine urbanistica dalla lunga dominazione veneziana?
Ha ragione Buzzati: ponendo fianco a fianco i bei palazzi cittadini, che echeggiano quelli dei campielli veneziani con relative trifore e leoncini e «imposte ripiegate su se stesse», e, subito fuori Belluno, i tipici edifici rustici dai balconi in legno, si produce «un effetto strano e abbastanza favoloso»: «quelle case sono venute su dal mare. Queste sono venute giù dalle montagne».
Come ogni vero scrittore, Buzzati sintetizza in una sola immagine la morfologia del bellunese, e involontariamente ne anticipa l’attuale impasse: da un lato Venezia è percepita sempre più come lontana, sorda alla natura peculiare di questo territorio; dall’altro cresce l’insofferenza della gente di montagna, delusa anche dal proprio capoluogo, Belluno, impotente a valorizzare e difendere uno straordinario capitale ambientale in evidente affanno.
Eccoci alla spinosa questione di quei comuni – ormai in crescita esponenziale – che, per via referendaria, fanno di tutto per trasferirsi armi e bagagli nel vicino Trentino Alto Adige, o addirittura in Friuli. Anche se qui mi dicono che, sul piano fattuale, l’espatrio regionale è per il momento una chimera.
Se comunque l’ingenuo visitatore ha l’ardire di sollevare la faccenda nel corso di un convivio, si accende un vespaio: c’è chi si limita a strusciare con fare allusivo indice e pollice (l’è sol ’na question de schei); chi dichiara la propria insofferenza verso il rigurgito di veri o presunti particolarismi etnico-linguistici (in effetti, da quando la Lega è comparsa sulla scena, è scoppiata un’improbabile passione per la storia, con ancora più improbabili personaggi che si atteggiano a redivivi Chabod); chi infine, pur non condividendo le scelte dei referendari, cerca di capire le ragioni più profonde di tale malessere.
Sirena è tra questi: «Mentre i paesi di montagna si spopolano a vista d’occhio, alla regione Veneto non sanno o fingono di non sapere che un conto è costruire una strada in pianura, un conto in montagna. E neppure immaginano la differenza che corre tra una grande stalla meccanizzata, che so io, del trevigiano, e quelle familiari della nostra terra.
Nei paesini chiudono scuole, uffici postali, ogni genere di servizi, e così la vita di chi, malgrado tutto, resiste, si fa sempre più dura. In compenso, nuove leggi regionali consentono cambiamenti quasi automatici della destinazione d’uso residenziale dei vecchi edifici agricoli sotto i trecento metri cubi. Insomma, la montagna non viene più considerata come un inestimabile capitale da custodire gelosamente, ma come sede di un divertimentificio di rapina, per due o tre mesi all’anno».
In attesa di Toni che più in là, nel pomeriggio, mi condurrà in un luogo emblema del progressivo spopolamento alpino (Caracoi Cimai), mi siedo su una panchina affacciata sulle montagne. Sono preso da uno strano senso di elettricità: un po’ per l’aria rarefatta, un po’ per la beltà del luogo, un po’ perché indeciso se guardare direttamente coi miei occhi o affidarmi alla prosa poetica di Buzzati. Finché faccio tutte e due le cose: lascio che il mio sguardo si posi sull’incredibile spettacolo delle nuvole che mi sovrastano e raddoppio la gioia tuffandomi in una pagina dello scrittore bellunese:
Alla sera, specialmente d’autunno, si formano sopra il Col Visentin delle nuvole di favolosa bellezza. Di così splendide non se ne vedono neppure sopra i grandi deserti d’Africa, pur rinomatissimi per questo genere di fenomeni. […] La loro materia non è quella grossolana delle nuvole oceaniche, bensì fine, densa, quasi carnale. I loro golfi lividi e violacei ripetono, ingigantendole, le fantastiche prospettive delle montagne che si innalzano di sotto tutt’intorno. E in vetta i candidi pinnacoli si torcono lentamente in continua metamorfosi, narrando lunghe epopee, di cavalli, di bandiere, di palazzi, di vescovi, d’elefanti, di baiadere, di dragoni, di amori, di battaglie. Alle volte, per gioco, fingono di essere loro stesse Dolomiti: per qualche minuto stanno immobili, proprio come se fossero di pietra. Selve di immani torri strapiombanti, con pareti di migliaia e migliaia di metri, come al mondo purtroppo non esistono.
Sollevo nuovamente gli occhi… e mi ritrovo in braccio al padreterno. Non ho idea di quanto tempo rimango lì, come inebetito. Finché vengo risvegliato dal clacson dell’auto di Toni, che viene a prendermi per portarmi in gita. (…)
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