Instanbul e Antiochia, in Turchia, visioni tra Europa e Oriente. L’una, come nella canzone di Guccini, con seno sul piano d’Europa. L’altra col culo sui colli del Medio Oriente. La prima sempre più occidentalizzante e “comunitaria”, almeno nelle aspirazioni ufficiali e nelle manifestazioni estrinseche: anche laddove cela, con imbarazzo misto ad orgoglio, le anse ora ingombranti e ora scintillanti del suo retroterra ottomano. La seconda talmente immersa – per mentalità, cultura, clima, stili di vita, architettura perfino – nel mondo orientale da sembrare talvolta (come del resto la confinante Siria, trattati bilaterali a parte, afferma senza esitare a proposito dell’intera regione dell’Hatay) un cuneo turco ritagliato in modo innaturale nel corpo di un’altra nazione. Di qua il Bosforo, il mare di Marmara, il mito di Costantinopoli e del vicino Occidente, lo sfarzo metabolizzato e a noi ormai familiare del Topkapi e delle grandi moschee. Di là le sterpaglie che emergono a fatica dal deserto, le lunghe strisce d’asfalto che si addentrano nelle lande siriane, le code interminabili dei camion fermi in dogana, le calde e fertili pianure agricole, il fascino quasi tangibile di Aleppo (ad appena un centinaio di chilometri), le atmosfere cinematografiche e un po’ sonnolente tipiche del border, con i confini invisibili e quei reticolati in bella evidenza, mentre dallo sfondo si levano gli echi di una romanità imperiale non ancora, e forse mai, divenuta bizantina prima di andare in rovina.
Istanbul e Antiochia, affinità e contrasti
Istanbul e Antiochia rappresentano, di fatto e per fato, una sorta di alfa e di omega della Turchia di oggi. Sono in qualche modo le estremità geografiche e storiche di un paese non solo immenso, ma capace, come un elastico, di estendersi e di ritrarsi sulla misura delle proprie velleità e delle proprie tradizioni. A est e a nord delle città si estende un territorio-ponte di cui nessuna delle due è sintesi né simbolo. Anche se, insieme, meglio di qualunque altra esse sono in grado di fotografarlo e di unificarne l’identità di nazione. Forse perché, a ben pensarci, nelle loro pur abissali differenze Istanbul e Antiochia riescono in qualche modo a palleggiarsi tra loro destini comuni e analogie sotterranee: retaggi, forse, del grande tessuto comune della civiltà mediterranea che periodicamente sembra affiorare dal suolo del mondo antico per richiamarci al senso delle radici e delle affinità impercettibili. Naturale fulcro strategico, commerciale, politico la prima. Faro decaduto di spiritualità e di commerci la seconda. Eppure, ambedue, per la Turchia sono città-cerniera tra universi lontani.
Turchia, due destini lontani: voglia di Europa e caos gaudente
Certamente non c’è nulla in Antiochia della capitale morale di un paese che si adopera per entrare in Europa – o meglio nell’Unione Europea – vincendo le secolari diffidenze del mondo occidentale e tentando di scavalcare le viscosità di una tradizione culturale profondamente diversa dalla nostra. Niente delle botteghe stipate del bazar di Istanbul, tentacolare organismo sospeso tra il gusto levantino del commercio e il fascino ambiguo del mercato globale, ricorda le atmosfere paciose del suq di Antiochia, dove folate di brezza fresca riescono ancora a penetrare tra i vicoli, scompigliando le merci sui banchi. Mentre difficilmente sulle facciate scrostate dei palazzi dei quartieri popolari del Corno d’Oro sarà possibile lambire coi polpastrelli la patina sabbiosa che permea, come un velo granuloso e sottile, gli edifici di quella lontana città di provincia che sorge aldilà delle montagne e delle grandi plaghe industriali turche.
Perfino il caos, quel caos in fondo allegro e sorridente che assimila le strade dei due centri urbani, è fondamentalmente diverso: strombazzante, frenetico, metropolitano quello affacciato sul Bosforo; sconclusionato, irrazionale, irridente e, a volte, quasi gaudente quello antiocheno. Improbabile sorprendere le sofisticate ragazze. Acquedotto di Antiochia dell’alta società di Istanbul, maniache di shopping e di griffe occidentali nelle strade intorno a piazza Taksim, ad aggirarsi per i viali alberati del parco fluviale di Antiochia, dove le loro coetanee portano a spasso la semplicità della gioventù e del casual a poco prezzo tra i chioschi del gelato, le panchine di legno e gli sguardi ammiccanti dei giovanotti. E non ci sarà mai calca all’ingresso del locale museo archeologico, con un bigliettaio distratto e gli sparuti visitatori che si vagano come intimiditi ai piedi dei grandiosi mosaici romani lì esposti, considerati tra i più belli dell’arte di tutti i tempi: meraviglie certamente ignote ai vacanzieri che premono alle barriere di entrata elettroniche dell’harem al Topkapi, simbolo di una grandeur monumentale divenuto ormai patrimonio del business turistico internazionale.
Città “colla” fra oriente e occidente
Eppure i punti di contatto tra la grande metropoli quasi europea e la città di provincia quasi mediorientale non mancano. Come un filo di Arianna, il percorso si snoda tra reminiscenze e analogie. Se è solenne la messa domenicale celebrata dal pope ortodosso nella cittadella patriarcale di Istanbul, arcigna enclave cristiana in un contesto permeato di spiritualità musulmana, non meno emozionante è entrare nella chiesa-grotta di San Pietro ad Antiochia, con la sua facciata medievale, la pietra spoglia delle pareti, le tracce degli antichi affreschi e del fumo incrostato delle candele. E i resti delle mura imperiali che, lontano dai cantieri di restauro, ancora segnano il confine di certi quartieri poveri rimasti intrappolati all’interno di un agglomerato urbano in continua espansione come Istanbul, non sono molto diversi dalle vestigia della cinta fortificata che, sulla sommità della montagna, un tempo proteggeva Antiochia da nord ed oggi offre riparo alle coppiette che salgono lassù al fresco, in cerca di intimità.
Ambedue – con i suoi immensi distretti residenziali la prima, con i grandi compound agroindustriali la seconda – città orizzontali, agli estremi opposti di un paese composito, sia Istanbul che Antiochia sembrano tendere ad allargarsi pian piano sul territorio come macchie di colla: l’una forse per rendere più saldo e stretto il legame politico ed economico con l’Occidente, l’altra per mantenere intatte le sue radici e le sue affinità culturali con l’Oriente. Come in un infinito mosaico all’interno della grande cornice del Mediterraneo, alla fine tutto tende a ricomporsi.
Turchia: dove il calcio è di casa
Il terzo posto conquistato ai Mondiali di calcio dalla Turchia nel 2002 non solo non è stata una sorpresa, ma ha rappresentato la conclusione di una parabola sportiva avviatasi già da qualche anno. Dapprima con l’arrivo in Europa di alcuni calciatori turchi presto affermatisi ai massimi livelli, poi con i sempre migliori piazzamenti delle squadre turche nei campionati continentali per club, quindi l’”esportazione” di tecnici di grande personalità come Fatih Terim. Ma nulla, se non una serie di passeggiate nei quartieri popolari di Istanbul, potrà rendere l’idea delle dimensioni che la football-mania ha oggi raggiunto in Turchia. Il bazar, ad esempio, è un fiorire di bandiere di Besiktas, Feneherbace, Galatasaray, le tre squadre della città, ognuna con il suo stadio. Chi c’è stato assicura che seguire una partita in curva è un’esperienza da non perdere.
Nei negozi è un tripudio di poster e di ritratti dei più famosi calciatori della Turchia del momento, molti dei quali impegnati nel campionato italiano: Okan, Emre, Hakan Sukur. Nelle strade strette e tortuose che si inerpicano per i quartieri fatiscenti sulle colline del Corno d’Oro, tra gli atelier dei nuovi intellettuali bohemienne e gli androni delle case popolari, adulti e bambini si affrontano in partite all’ultimo gol, sfidando le leggi della fisica: spesso il selciato è così in salita da impedire al pallone di avanzare. Le maglie con i nomi dei giocatori sono ovunque. I vessilli sventolano dai davanzali delle finestre. I tifosi più maturi, se non scendono in campo, tappezzano il portone di casa con la sciarpa della squadra del cuore, oppure con vernice e pennello istoriano il portale con il nome del club preferito e dei campioni più amati. E c’è perfino chi arriva a dipingere l’intera facciata con i colori delle casacche: a strisce, a scacchi, a tinta unita. Edifici liberty in malinconico disfacimento e casermoni tirati su in fretta e furia, vecchie case in legno e moderne strutture residenziali finiscono così, in una curiosa liturgia pagana, per essere accomunate da un unico tratto distintivo e trasversale: il dio pallone.
Antiochia: i mosaici romani e la grotta di San Pietro
Non c’è niente di meglio per apprezzare la grandezza e la capillarità della civiltà del mondo antico che visitare il celebre museo archeologico di Antiochia, unico nel suo genere. I mosaici qui conservati, e risalenti all’epoca romana e bizantina (tra I e il IV secolo d.C.), provengono in gran parte dalle antiche ville sparse lungo il litorale e dalla città di Daphne tutti e rendono giustizia di un passato di prosperità del quale oggi non sempre c’è traccia nella città odierna. Le guide dicono che un’occhiata al museo vale da sola il viaggio fino in Hatay e forse hanno ragione. Tranquilli e illuminati dalla luce naturale, i padiglioni sorprendono non solo per la qualità estetica dei mosaici, ritenuta eccezionale, ma anche le grandi dimensioni e il loro stato di conservazione, nonché l’accuratezza dei dettagli e il loro valore documentario. Accanto ai soggetti a tema mitologico (famosissimi quelli di Oceano e Teti e quello di Narciso che si ammira riflesso nell’acqua), molti offrono squarci di vita quotidiana e di credenze popolari: tavole imbandite, pesci, animali, personaggi grotteschi e figure legate alle credenze popolari. Un’altra visita d’obbligo per chiunque si rechi ad Antiochia è quella alla cosiddetta Grotta di San Pietro, l’antro che ospitò la prima comunità cristiana ai tempi della predicazione di San Luca, San Pietro e San Paolo. Trasformata architettonicamente in chiesa dai crociati nel 1098, che ne costruirono la bella facciata in pietra calcarea, oggi la grotta, alla periferia della città moderna, è un luogo appartato che solo in occasione delle ricorrenze si riempie di turisti e di fedeli.
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