Venerdì 5 Dicembre 2025 - Anno XXIII

La natura e l’uomo, dal Kopacki Rit a Vukovar

Kopacki rit, il parco

Pochi anni orsono nomi geografici come Slavonia, Osijek o Vukovar si udivano quotidianamente al telegiornale. La guerra nell’ex-Jugoslavia li aveva resi tristemente famosi. Ora la vita sta riprendendo piano piano la sua normalità, le ferite degli uomini e degli edifici si rimarginano lasciando vistose cicatrici. Solo la Natura è esplosa tornando rigogliosa come un tempo

Kopacki Il castello di Tikves
Il castello di Tikves

Immerso in un mare di querce, nel cuore del Kopacki Rit, c’è il castello di Tikves. Solo il rumore del vento tra il fogliame e quello dei passi rompono la quiete immobile che vi regna attorno. Un luogo di favola, circondato dalla pace e dal verde. Costruito alla fine del diciannovesimo secolo come padiglione di caccia degli Asburgo, questo edificio di mattoni rossi e pietra bianca, almeno in passato, è sempre stato legato all’attività venatoria e alla guerra. Bruciato durante la Prima Guerra Mmondiale, fu ricostruito per volere di re Alessandro I di Jugoslavia, anch’esso abile cacciatore. Ultimo ospite illustre fu il Maresciallo Tito, fervente doppietta, che ne fece una delle sue residenze dopo averlo nazionalizzato. In quegli anni venne aggiunta una dependance in stile modernista che fa a pugni, esteticamente parlando, con il corpo principale. Nel 1991, appena prima dell’inizio della tragica guerra nella ex-Jugoslavia, Slobodan Milosevic e Franjo Tudjman si incontrarono in questo stesso castello. E qui decisero di spartire la Bosnia tra Serbia e Croazia. Poco distante da Tikves, in Slavonia, la regione croata tra Serbia, Ungheria e Bosnia, si ebbero i primi scontri che portarono allo scoppiare del conflitto.

Pericolosi residuati in un ambiente incantato
Kopacevo, terra di acqua e vegetazione
Kopacevo, terra di acqua e vegetazione

Tikves è al centro del Kopacki Rit, un parco naturale che copre la pianura alluvionale a nord della confluenza con la Drava. Un dedalo di canali, argini, stagni, isolotti popolati da migliaia di uccelli e animali. Un ambiente unico, una natura incontaminata, che contrasta con quello che è accaduto una decina di anni fa. Anche qui, a volte, si notano i cartelli che indicano la possibile presenza di mine antiuomo lasciate durante l’ultima guerra. Lo splendore della natura si contrappone alla stupidità umana. Ora nel parco, a Kopacevo, c’è un centro visitatori che organizza escursioni in barca. È possibile fare passeggiate per osservare le gli uccelli che qui nidificano a migliaia e incontrare un alce che ci osserva con noncuranza prima di sparire tra gli alberi. È un’altra dimensione, dove la natura con i suoi ritmi torna a essere padrona del territorio. O quasi. Una guida spiega che i cartelli che indicano la presenza di campi minati nelle paludi del parco probabilmente sono stati messi solo per avere maggiori finanziamenti per la bonifica dalle mine. L’area del Kopacki Rit per sua natura non è facilmente percorribile, con i suoi pantani e la fitta vegetazione che, per regolamento, non subisce mai l’intervento dell’uomo. Quando un albero muore viene lasciato cadere a decomporsi naturalmente.

Una zona di frontiera
Donne intrecciano peperoncini
Donne intrecciano peperoncini

La bellezza lussureggiante della foresta fu probabilmente anche un ottimo ricovero per i famigerati paramilitari serbi, tra cui le brutali Tigri di Arkan, uno dei gruppi di nazionalisti serbi più temuti per la loro ferocia, che proprio a Tikves avevano uno dei loro campi di addestramento. Si dice anche che nel bosco, tra le querce centenarie dove si cela mansueto il castello, siano state sepolte alcune delle prime vittime degli scontri etnici tra serbi e croati. La natura, ora, s’impone su questo oscuro passato e anche l’uomo ha ricominciato a vivere diversamente in questi luoghi. Il castello è stato restaurato, poco lontano vi è un ristorante specializzato in cucina tipica e selvaggina. Ai muri sono appese alcune immagini scattate da Isabella d’Asburgo, appassionata fotografa che documentano la vita della Slavonia verso la fine del XIX secolo e rimandano il visitatore indietro di oltre un secolo, saltando l’insanguinato Novecento. Questa regione è sempre stata zona di frontiera, fin da quando i Turchi risalirono lungo la penisola balcanica. Nel XVII Secolo l’impero Austroungarico creò la Kraijna della Slavonia, parte della cosiddetta “frontiera militare”, una sorta di cuscinetto tra l’Islam turco e il Cristianesimo austriaco che si allungava dall’attuale Vojvodina in Serbia verso ovest fino alla punta della Bosnia. La Kraijna scomparve a fine Ottocento, inglobata dal regno di Croazia, uno dei satelliti dell’Impero Asburgico Infine divenne parte della Jugoslavia di Tito. Con lo smembramento, la Slavonia è tornata ad essere frontiera e le rive del Danubio, che la attraversa, sono state nuovamente insanguinate.

La città miracolata: Osijek
Una sera a Osijek
Una sera a Osijek

Partendo dal Kopacki Rit e scendendo verso sud, si costeggia quel pezzo di Danubio che segna il confine tra Serbia e Croazia e si è colpiti dalla tensione che vi è tra la bellezza della natura e l’assurdità della guerra. Quei cartelli con il teschio e le tibie incrociate, simbolo di pericolo mortale, si ripetono più volte lungo il ciglio della strada che porta a Osijek attraverso boschi e campi coltivati. La città è stata bombardata durante la guerra, anche se moderatamente e ha scampato la distruzione che invece hanno subito altre cittadine vicine. I sofisticati palazzi colore pastello in stile secessione viennese sono stati per lo più ristrutturati e un tram nuovo di zecca attraversa la piazza principale dove una fontana mescola giochi di luce e spruzzi d’acqua. Il selciato bagnato riflette la cattedrale come uno specchio. Avvicinandosi si scopre che i suoi mattoni rossi sono ancora scheggiati da qualche colpo sparato dagli edifici dal lato opposto della strada. Allontanandosi dalla piazza principale si arriva al lungofiume. Osijek, capitale della Baranja croata, fu fondata dai Romani, sotto l’imperatore Adriano, sulla sponda meridionale della Drava, dopo aver raso al suolo un insediamento preesistente. Oggi il fiume è attraversato da un ponte pedonale in cemento e cavi d’acciaio, dove alcuni ragazzini giocano con le biciclette esibendosi in pericolose acrobazie sul parapetto. Un moderno hotel in vetro è stato da poco costruito a monte del ponte, quasi a voler bilanciare la presenza della città vecchia, la Tvrda, che sorge poche centinaia di metri più a valle.

La memoria ottomana
La posizione di Osijek rispetto al fiume
La posizione di Osijek rispetto al fiume

La cittadella fu costruita alla fine del diciassettesimo secolo dagli Asburgo i quali avevano appena scacciato dalla Baranja gli Ottomani che vi avevano regnato per quasi due secoli. Le antiche mura oggi sono state demolite ma un insieme di edifici – caserme, palazzi governativi, una chiesa – si raccoglie attorno a una piazza principale, anch’essa sotto restauro da qualche anno. Stradine acciottolate e deserte si snodano attraverso quello che un tempo era un avamposto militare contro l’infedele Ottomano. Un verde parco cittadino, accanto al quale scorre placida la Drava, collega la Tvrda al centro vero e proprio dove vi sono i negozi, le vetrine e la gente che passeggia. Ancora una volta, tra i grandi alberi non vi sono i segni dell’ultima guerra, ben visibili invece sugli edifici.

Vukovar, la città martire
Vukovar devastata dalla guerra nel 1991
Vukovar devastata dalla guerra nel 1991

Uscendo da Osijek e dirigendosi a sud ci si avvicina a quello che è stato uno dei più sanguinosi campi di battaglia della guerra in Jugoslavia. Si attraversano molti piccoli paesi e spesso sui muri delle case sono visibili le scarificature dei colpi di artiglieria, riparati alla meno peggio. Fori cementati che risaltano perché contrastano con il colore originale. Il fluire lento e costante del Danubio, poco lontano sulla sinistra, è percepibile anche se non si vede. Nemmeno quaranta chilometri e si entra a Vukovar, il cui nome evoca le più brutali atrocità che una guerra possa portare. La città fu praticamente rasa al suolo dai bombardamenti serbi nel 1991 e resistette a un tremendo assedio per alcuni mesi, prima di capitolare. Arrivando da nord si lascia la macchina in un parcheggio, poco distante dal mercato. Tra le bancarelle anziane signore osservano la merce. C’è qualsiasi cosa, dalla frutta e verdura ai tappeti, dagli accessori per il bagno ai giocattoli. La vita è ripresa in città. Lentamente il fluire delle attività quotidiane ritorna alla normalità e scorre regolare come il fiume, poco distante, però le ferite sono ancora aperte. Non tutti gli edifici sono stati ristrutturati. Alcuni sono cadenti, altri hanno i muri sfregiati dalle granate e dai colpi di kalashnikov. La piazza principale si affaccia sul Danubio. Alcune barchette sonnecchiano nel porticciolo, cullate da onde quasi inesistenti. Il lastricato del lungofiume, sotto i pochi alberi, è come spruzzato di vernice. I buchi lasciati dalle granate sono stati colmati con del cemento chiaro. Tre bandiere, quella di Vukovar, della Croazia e della provincia, si agitano al vento. Sembra vogliano dimostrare alla riva opposta la loro indipendenza. Appena oltre il fiume è Serbia. Da quella riva ostile la città è stata duramente colpita. Volgendo lo sguardo a sud, dove il Danubio disegna un’ansa verso sinistra, si vede sulla riva croata quel che rimane del serbatoio dell’acqua della città. Trapassato da parte a parte dai colpi di artiglieria, sta in piedi a ricordo delle sofferenze patite durante la battaglia. Sotto di esso, alcuni bambini possono finalmente stare ad osservare quieti il fiume che scorre. (23/08/2012)

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