Per alcuni anni, anni di guerra e ribellione, ho viaggiato sui confini fra Etiopia ed Eritrea. Ogni tanto appariva questo nome: Dancalia. Stava laggiù, lontano dagli altopiani, dalle montagne che proteggevano la rivolta di un popolo. Una notte (a quei tempi ci si spostava solo con il buio per evitare di essere scoperti dagli aerei: guerre di un altro secolo) ci fermammo sul ciglio di un dirupo. Non vi era nessuna luce verso il vuoto.
In questo panorama nero, un fuoco lontanissimo ardeva a mezz’aria. Là dove non avrebbe dovuto esserci nulla e nessuno. Là dove era la Dancalia. Sembrava un bivacco aereo, quel fuoco. Era un bagliore sospeso nel cielo. Era lontano? Era a poca distanza da noi? L’accampamento notturno di una carovana? Un villaggio afar? Un incendio in tempi di battaglie? “Non si è mai spento”, mi disse un giovane partigiano eritreo. La gente dell’altopiano ha sempre guardato con timore a quel fuoco perenne che usciva dalla terra.
Non ne voleva sapere niente. Era un altrove ignoto. A volte, ai mercati dei primi villaggi dell’altopiano, salivano, con i loro dromedari, quegli uomini magri che là abitavano. Portavano sale. Destinato a essere scambiato con vestiti e teff. Li avevo intravisti anch’io. Quella notte mi addormentai guardando il piccolo cerchio rosso che ballava in quell’orizzonte nero. Non c’era luna. Così la Dancalia cominciò a girare nella mia testa.
Dov’è la Dancalia?
Siamo in Africa orientale. La regione degli afar è un colossale triangolo geografico. La base è la costa del mar Rosso: più di cinquecento chilometri, dal porto di Massawa in Eritrea ai vulcani di Gibuti. Sulla punta del triangolo, per una coincidenza fra geometria, geografia e volere degli uomini, sorge la più celebre stazione dell’unica ferrovia etiopica: Awash Town, uno degli snodi stradali della Rift Valley (Awash non è distante da Addis Abeba, capitale dell’Etiopia: appena 160 chilometri). Gli afar, gli issa e i clan oromo sono le genti, in perenne contesa fra loro, di questi territori, aridi e desertici per gran parte della loro estensione.
La regione degli afar è vasta 156mila chilometri quadrati, varca i confini di tre stati (Etiopia, Eritrea e Gibuti), si allunga fra il 15° e il 12° parallelo Nord. Per noi italiani la Dancalia corrisponde alla regione Afar, i dancali sono gli afar. Non è proprio corretto, ma è quel che si usa dire. In realtà la Dancalia è solo una porzione della regione Afar: è la depressione settentrionale di questa terra, un altro dei vertici del triangolo geografico.
È vasta 50mila chilometri quadrati, di cui 10mila sono sotto il livello del mare. La sua geografia è racchiusa fra le catene montuose delle Alpi Dancale, che la separano dal mar Rosso, e le pareti dirupate dell’altopiano etiopico. Quando calpesteremo la Piana del Sale, cammineremo su un fondo oceanico, un deserto di sale che raggiunge spessori variabili da mille metri a tre chilometri. Una depressione che sprofonda per almeno 120 metri sotto il livello del mare.
Questo è il luogo più fragile del nostro mondo: il fuoco è appena sotto i nostri piedi, sta lì a cinque chilometri di distanza dalle suole delle nostre scarpe. Una crosta che viene sottoposta a scrolloni di ogni genere, un territorio del pianeta dove si avverte (e si vede) pulsare il cuore della Terra.
La Dancalia è una terra in movimento. Se avete spirito da teologi, qui fate ancora in tempo ad assistere alla Genesi. La Creazione non è ancora terminata. In una settimana, dal 7 al 14 novembre del 1978, sugli scogli di Gibuti, la Terra si aprì. Ferite larghe almeno due metri creparono quella crosta di lava. Dalla pancia del nostro pianeta emersero 43 megatonnellate di basalto, si formarono nuvole spaventose. Sei miliardi di metri cubi di gas.
Era un parto, la fine tumultuosa di una gravidanza, la nascita di un nuovo vulcano. Il cono dell’Ardoukoba, alto 40 metri e con una circonferenza di 300 metri, nato in sette giorni, oggi fa parte della geografia di quella regione, si specchia nelle acque del mar Rosso. Quarant’anni fa non c’era. L’Africa, in questo gioco di faglie che si incontrano e si scontrano, sta salutando la penisola arabica: se ne allontana di due centimetri all’anno.
Se ce la faccio ad arrivare a ottanta anni, la terrazza sulla quale amo dormire ad Aysa’iyta, vecchia capitale della regione Afar, si sarà spostata, rispetto all’Arabia, di sei decimetri. Dovrò riavvicinare il letto al muretto se voglio continuare ad avere lo stesso panorama sul fiume. Io ho tentato, con testardaggine e insuccessi, di arrivare più volte in Dancalia solo perché un giorno, sulle coste del mar Rosso, là dove onde azzurre accoglievano una colata di lava nera, mi trovai di fronte un pastore afar. Non c’era nessuno là attorno e dal nulla spuntò questo ragazzo, con uno stecchino fra i denti e un pettine infilato fra i capelli arricciati. Era giovane, magrissimo, spigoloso, muto. Aveva gli occhi da uomo della notte.
Un grosso pugnale ricurvo appeso alla cintura. Stava appoggiato a un bastone. Come faccio a spiegarvi che rimanemmo lì per quasi un’ora? Senza dirci nulla. Le sue capre erano pazienti, c’era erba fra quei ciottoli di lava. Lui indossava una maglietta rossa, e un tubo di stoffa sbiadita faceva da gonna. Si accucciò sui talloni. Io mi sedetti. Non so quanto durò. Non riesco a raccontarlo. Forse sembravamo due perfetti imbecilli. Ma io, come posso spiegarvelo?, sentii un senso di amicizia che, in Africa, non avevo ancora provato. Ho ancora addosso la sensazione superba di aver stretto un patto di sangue con quell’uomo che mai avrei rivisto.
Se ne andò. Il bastone a tracolla delle spalle, i passi ondeggianti, le capre in fila dietro a lui. Non ci eravamo detti una sola parola. Quale, poi? Un cenno con gli occhi quando decise di alzarsi. Non si voltò mentre si incamminava verso il sole che stava tramontando. Ho ancora in mente la sua ombra che tremola contro il cielo. Ecco, vado in Dancalia per un debito di gratitudine verso quel pastore afar. Non lo riconoscerei nemmeno, se lo incontrassi nuovamente. Vado in Dancalia perché gli afar sono riusciti a trovare una nicchia nel mio cuore e nei miei pensieri. I vulcani, la lava, i paesaggi estremi sono solo il fondale di un palcoscenico di una umanità straordinaria.
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