La storia che segue ebbe inizio quindici anni fa con una sigaretta e una “valigia”. Mi trovavo nel Sahara egiziano, cento chilometri a ovest dell’oasi di Bahariya, su una jeep dove non c’era neppure un fumatore, neanche a pagarlo. Conseguenza: per farmi una sigaretta dovevo attendere una sosta e scendere. Ma quella sera era quasi buio e l’autista aveva fretta; perciò alle mie richieste di stop la risposta era sempre “La-la-la”, che in arabo vuol dire tre volte no.
Così presi una decisione che solo un fumatore può capire: “Scendo e vado a piedi”. Detto e fatto: un minuto dopo restavo solo (e fumante) tra la sabbia, mentre la Toyota spariva a sud, verso il campo. Quella scelta tabagista mi portò, alla lunga, a El-Alamein. Tutto perché, mentre seguivo le tracce della jeep, vidi un parallelepipedo che giaceva sulla pista: “Che idioti, corrono tanto che perdono i bagagli!” pensai, all’indirizzo dei miei compagni salutisti. Poi però, avvicinatomi, vidi che la “valigia” era una tanica con la scritta “Wermacht”. A perderla non era stata la mia auto, ma un soldato dell’Afrikakorps, cinquant’anni anni prima.
Aritmetica dolorosa
Fino ad allora la guerra d’Africa, Rommel ed El-Alamein erano per me realtà nebulose ed estranee, che un pacifismo diventato inconsciamente censura relegava nella categoria “roba da fascisti”. Ma da quella sera El-Alamein diventò una realtà concreta e inquietante: chissà come e perché un soldato ignoto aveva perso la tanica: forse avanzava a tappe forzate, rincorrendo un miraggio di vittoria; forse fuggiva più veloce del mio autista, dopo la sconfitta; o forse era rimasto lì, morto ammazzato, e il vento l’aveva ricoperto di sabbia.
Oggi, dopo aver ristudiato un po’ di storia e dopo aver visitato due volte El-Alamein, propendo per la terza ipotesi. I soldati che parteciparono alla battaglia che decise l’esito della seconda guerra mondiale in Africa furono trecentoquarantamila; fra loro si contarono ottantamila caduti; e più di sessantamila di questi non furono mai ritrovati. Fatti i conti, il militare della mia tanica ha una probabilità su quattro di essere morto in battaglia o in fuga; e in tal caso ha sei probabilità su otto di essere ancora là, a ovest di Bahariya, sotto un velo di sabbia che nessuno toglierà più.
Il luogo della battaglia
In italiano El-Alamein è sinonimo di Apocalisse, ma in arabo vuol dire più banalmente “Le Due Colline”. Il polveroso villaggio con questo nome si trova centodieci chilometri a ovest di Alessandria, in una striscia di deserto ghiaioso lungo il Mediterraneo. La strada per arrivarci dà poche emozioni: il mare non si vede nemmeno, nascosto com’è da un’interminabile conurbazione di variopinte seconde case, status-symbol del ceto medio del Cairo. Poi però, prima di arrivare, le palazzine spariscono e il mondo torna a tingersi di azzurro e ocra.
Ed eccolo, il campo di battaglia: un rettangolo largo settanta chilometri e profondo venti, che inizia appena oltre le case, dove un masso segna il punto più avanzato toccato dai bersaglieri italiani. Sul masso c’è una lapide con un’insegna, una data (1-7-1942) e una scritta: “Mancò la fortuna, non il valore”. Poco più in là si profilano le alture di Ruweisat e Halfa, dove gli italo-tedeschi attaccarono. Poi ecco Quota 33, dove australiani e italiani si scannarono più coi coltelli che coi cannoni. E a sud si profila Tell Al-Aqqadir, dove gli inglesi sfondarono.
Dal Generale al Feldmaresciallo
Ma a raccontare tutto così, senza una mappa né un flash-back storico, della sconvolgente drammaticità di El-Alamein, si capisce poco. Tentiamo il flash-back. Tutto iniziò nel 1940, quando gli italiani, partiti dalla Libia, invasero l’Egitto al comando di Rodolfo Graziani, che si era guadagnato fama di generale di ferro in Cirenaica, facendo strage di guerriglieri (e di civili). Ma più del ferro contò la sabbia: Graziani si arenò subito in un ameno villaggio di pescatori, Sidi El-Barrani.
Tre mesi dopo gli inglesi reagirono e dilagarono in Libia. Graziani fu esonerato, in Libia affluirono truppe tedesche (l’Africakorps, filiazione coloniale della Wermacht) e il comando passò al feldmaresciallo Erwin Rommel, alias “Volpe del Deserto”, che nel maggio 1942 ripeté l’attacco. Gli italo-tedeschi tornarono in Egitto e avanzarono lungo il mare, aggirando la Depressione di El-Qattara, un’immensa “buca”, tutta forre e scarpate, impraticabile per i carri armati. Gli inglesi arretrarono fin dove la depressione si avvicina alla costa e crea una strettoia, ideale per la difesa: El-Alamein, appunto.
Un massacro che si poteva evitare
Lì si combatterono non una ma tre battaglie. Con la prima (1-27 luglio) Rommel tentò di passare d’impeto, senza riuscirci. Con la seconda (30 agosto-5 settembre) cercò di anticipare i rinforzi inglesi, che stavano arrivando via mare: stesso risultato. Nella terza (23 ottobre-6 novembre) l’iniziativa fu presa dal comandante inglese, Bernard Law Montgomery, che poteva ormai contare su un rapporto di forze di quattro a uno. E fu un massacro: dopo due settimane di furiosa resistenza, il fronte cedette e gli inglesi ebbero campo libero.
Perché la Volpe del Deserto, che sapeva dell’arrivo dei rinforzi nemici, si ostinò a far muro, invece di ritirarsi su posizioni più favorevoli? Perché Berlino e Roma avevano dato l’ordine tassativo (e insensato) di “non cedere un metro”. Più che da Montgomery, Rommel fu sconfitto da Hitler e Mussolini: lui, da bravo militare, sapeva che si doveva arretrare; ma da buon tedesco eseguì gli ordini, pur sapendo che portavano al suicidio. Poi, tornato a casa, aderì al famoso complotto che doveva eliminare Hitler. Fallì e pagò con la vita.
Quattro cimiteri per i giovani del mondo
Fin qui i fatti. Quanto alle emozioni, a me El-Alamein ha regalato la prima nel Museo militare che in paese ricorda gli avvenimenti del 1942: là, tra cannoni e carri armati, ho visto una jeep con una tanica uguale alla mia. La seconda emozione è arrivata poco dopo, quando ho chiesto a Mohamed, la mia guida, di fare un’escursione fino alla Depressione di El-Qattara: “Impossibile – è stata la risposta – perché laggiù è ancora tutto minato”. La terza mi ha preso davanti ai campisanti che raccolgono i pochi caduti che hanno avuto una vera tomba.
Sono quattro, i cimiteri di guerra di El-Alamein. Il primo, una sfilata di croci in un grande giardino, è quello inglese, dove in realtà gli inglesi sono solo 4.074 su 7.367. Gli altri, morti per una guerra non loro, venivano da Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e India. Il secondo cimitero, il più piccolo, è dedicato a volontari greci di appoggio. Il terzo è tedesco: una simil-fortezza cupa e solenne, traboccante di aquile e lapidi di granito con 4.200 nomi, fra cui forse anche quello di un soldato che perse una tanica a ovest di Bahariya.
Dove riposano gli italiani
Il quarto sacrario è una grande torre bianca su una collina, preceduta da un viale di oleandri. Là sono sepolti 4.634 soldati italiani (metà dei quali “ignoti a noi, noti a Dio”, cioè mai identificati) e 288 ascari, cioè ausiliari libici. Oggi il complesso è curato da sei dipendenti egiziani, coordinati da un caposquadra beduino (Hamdallah Farag) e diretti da un tenente italiano (all’epoca delle mie due visite Maurizio Birsa, di Pompei). A pagare le spese di gestione e gli stipendi è il nostro Ministero della difesa. Ma non sempre è andata così.
Infatti il cimitero italiano fu creato nel 1958 per iniziativa di un privato: il tenente colonnello degli alpini Paolo Caccia Dominioni, che per nove anni aveva rastrellato il deserto alla testa di un’équipe di beduini, per recuperare i resti dei caduti. “L’operazione costò la vita a sette uomini, saltati su mine dimenticate” racconta Hamdallah Farag, “fra loro c’era anche mio zio, Ghuma Abdel Hamd”. Se non fosse per Caccia Dominioni e i suoi eroi beduini, oggi a El-Alamein nulla ricorderebbe il macello che nel 1942 decimò i soldati italiani.
Nel ricordo dei “Guagliune”
La responsabilità di tanto disinteresse non va solo ai vari governi dei decenni passati: per lungo tempo tutta l’Italia ha rimosso il ricordo di El-Alamein, per opposte ragioni. La cultura militarista, “di destra”, non ha mai amato quel ricordo, perché rievoca una disfatta. La cultura pacifista, “di sinistra”, tanto meno; perché la campagna d’Africa fu una guerra di aggressione, voluta dal fascismo. Eppure a El-Alamein dovrebbero andare tutti: per capire, per non dimenticare una pagina di storia, per evitare che tragedie simili si ripetano.
A El-Alamein il tenente Birsa mi ha regalato una poesia in napoletano, che inizia così: “Partette ‘nu surdate ‘na matina…”. L’autore è tale Aldo De Gioia, orfano del “surdate” citato nel testo, morto in Africa. Ogni tanto rileggo quei versi, fino all’ultimo: “Guagliune ca teniveno vint’anne, site guagliune pe’ l’eternità”. Malinconie di un passato remoto? No. Molti di quei “guagliune” sono ancora abbandonati nei pressi di El-Qattara, dove da sessantacinque anni nessuno va più per paura di mine che non sanno che la guerra è finita.
Da leggere e da vedere
Da sempre la letteratura su El-Alamein è quasi tutta in inglese.
Il libro più completo sull’argomento è tuttora “Al-Alamein revisited” di Jill Edwards, edito dall’American University del Cairo, reperibile in Egitto, che raccoglie gli atti di un convegno storico del ‘98. Negli ultimi anni, però, dopo una visita del presidente Carlo Azeglio Ciampi sui luoghi della battaglia, i fatti del 1942 sono stati riscoperti anche dal cinema italiano. A fare da apripista è stato nel 2002 Enzo Monteleone, col film “El-Alamein, la linea del fuoco”. Nei mesi scorsi è uscito un altro film, “Le rose del deserto” di Mario Monicelli, con Michele Placido.
Visita a El-Alamein
Dal Cairo si raggiunge Alessandria (il mezzo migliore è il treno) poi in auto si segue l’autostrada per Marsa Matrouh; si può anche prendere un bus (partenza dal quartiere Sidi Gaber) o un treno (dalla Masr Station). Per dormire in zona si incontrano due hotel. Circa quindici chilometri prima di El-Alamein c’è l’Atic Hotel (Matrouh Road, km 90; telefono. 0020-3-4106183; un tre stelle, il cui costo in camera doppia oscilla fra gli 80-90 Dollari) e circa trenta chilometri dopo si giunge all’Al-Alamein Hotel (El Dabaa Centre, Sidi Abdel Rahman; un quattro stelle da 80-105 Dollari. Telefono 0020-3-4921228.
Per mangiare, proprio di fronte al sacrario italiano, c’è un bar-ristorante molto semplice. Veri ristoranti si trovano solo a quindici-trenta chilometri di distanza, presso gli hotel. Merita senza dubbio una visita il Museo militare, aperto dalle 9 alle 17 (entrata a pagamento). I quattro cimiteri di guerra sono aperti nelle ore diurne: l’inglese e il greco si trovano in paese, il tedesco tredici chilometri più avanti (deviazione a destra), l’italiano dopo altri cinque chilometri.
Per avere informazioni ci si può rivolgere all’Ufficio del Turismo Egiziano, via Barberini 47, Roma (www.egypt.travel).