Mercoledì 30 Ottobre 2024 - Anno XXII

Verdi rive dell’Isonzo; fra orsi, trote e trincee

Caporetto Monte Tricorno

E’ da poco passato il 24 maggio, data che ricorda l’inizio della Grande Guerra, la cui vittoria finale è passata attraverso una clamorosa sconfitta: quella di Caporetto. E’ istruttivo, in tempo di pace, ricordarne il feroce prezzo pagato

Caporetto Il sacrario foto Daniele Colussi
Caporetto Il sacrario foto Daniele Colussi

Caporetto, per l’esercito italiano fu la madre di tutte le sconfitte, che rischiò di ribaltare l’esito della prima guerra mondiale. Per l’Impero asburgico fu l’ultimo canto del cigno, il colpo di coda di un potere moribondo e perciò più feroce. Per il dizionario fu un nome proprio che diventò un nome comune: da Caporetto, amena località della Venezia Giulia, a “caporetto” con la “c” minuscola, sinonimo di una disfatta al superlativo. Per le Alpi, infine, fu la più grande mattanza mai vista sulla catena, conclusa con un bilancio da bomba atomica anche se fu attuata con tutt’altre armi: dai cannoni ai coltelli.
Sono passati poco meno di novant’anni da quel tragico capitolo della storia d’Italia, ma la battaglia di Caporetto sembra preistoria: nessuna gita scolastica va più a visitare i luoghi dello scontro; in nessuna osteria risuonano più certi canti, già popolarissimi, nati nelle trincee dell’Isonzo; e nessun documentario tv ricostruisce mai i giorni della battaglia, anche se ogni tanto la Rai ripropone il film “La grande guerra” con Gassman e Sordi, capolavoro della tragicommedia all’italiana, ambientato proprio fra Caporetto e paraggi. Insomma: per la “Waterloo italiana” sembra scattato un processo di rimozione.

Splendida natura, oggi amica

Caporetto Fiume Isonzo Soča
Fiume Isonzo Soča

Ma Caporetto c’è ancora, anche se ha cambiato nome e bandiera: oggi si chiama Kobarid e sta in Slovenia, perché gli altalenanti umori della storia hanno spostato i confini. Per arrivarci si parte da Gorizia, si supera la frontiera, si risale l’Isonzo (oggi Soča) verso il cuore delle Alpi Giulie; si superano Plava, Canale d’Isonzo e Tolmino (oggi Plave, Kanal e Tolmin) e dopo cinquantacinque chilometri si è alla meta: un quieto villaggio in una conca, dominato da un campanile a cipolla. Circa venti chilometri più avanti c’è Plezzo (oggi Bovec) centro sciistico e anticamera del Monte Tricorno (oggi Triglav, 2.864 metri) il “tetto” delle Giulie e dell’intera Slovenia.
Tutto l’itinerario si snoda in un mondo tranquillo e verdissimo, a prima vista inadatto a evocare ricordi di guerra: nelle acque cristalline dell’Isonzo nuotano trote, lucci e temoli; nelle radure di fondovalle si intravedono alveari che producono un miele famoso; sulle pendici dei monti si arrampicano fitte abetaie, frequentate da linci e orsi bruni e più su, verso le cime, si stende un brullo deserto di roccia, dove corrono camosci e sbocciano fiori pionieri. Insomma: un paradiso per naturalisti, escursionisti e pescatori, che intorno al Triglav è protetto da un parco nazionale.

La leggenda del camoscio e dei fiori rossi

Caporeto Potentilla, rosa del Triglav
Potentilla, rosa del Triglav foto Andrea Schieber 

Questo mondo incantato ha ispirato molte leggende. La più nota narra di Zlatorog, un camoscio dalle corna d’oro, che all’alba dei tempi amava pascolare tranquillo vicino alle case perché allora uomini e animali vivevano in pace. Poi però un boscaiolo, invaghito di una bella veneziana, decise di portare in dono all’amata quelle corna auree che brillavano sui monti: perciò tese un agguato al camoscio e lo ferì; ma non riuscì a catturarlo. Da allora Zlatorog non si fece più vedere: deluso dal tradimento degli uomini, fuggì in una terra lontana, esente da agguati e da cacciatori.
A ricordare il camoscio dalle corna d’oro, a Caporetto sono comunque rimaste tre cose: una birra, un fiore e una maledizione. La birra porta sull’etichetta il nome e l’immagine di Zlatorog. Quanto al fiore, i botanici lo chiamano “Potentilla nitida”, gli altri “rosa del Triglav”: d’estate le sue piccole corolle macchiano i monti, rosse come gocce di sangue. Leggenda vuole che quei fiori siano appunto il sangue perduto dal camoscio ferito. La maledizione, infine: fuggendo, Zlatorog predisse che gli uomini non sarebbero più vissuti in pace, né con gli animali né coi loro simili.

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Una valle piena di morti

Caporetto Stambecco
Stambecco

Previsione azzeccata, purtroppo. Basti dire che nell’ultimo secolo Caporetto ha cambiato “proprietario” sette volte, mai pacificamente: da austriaco divenne italiano (1915), poi di nuovo austriaco (1917) e ancora italiano (1918), quindi tedesco (1943), jugoslavo (1945) e infine sloveno (1990). Solo nella prima guerra mondiale, sull’Isonzo furono combattute ben dodici battaglie in ventotto mesi. La prima fu quella di Plava (giugno-luglio 1915), l’ultima appunto quella di Caporetto (ottobre 1917). Bilancio finale del macello: duecentocinquantamila morti e centomila “dispersi”. Circa tre volte Hiroshima.
Dunque Caporetto (alias Karfreit, come si chiamava sotto l’Impero) fu l’ultimo anello di una lunga catena di sangue. Il penultimo anello aveva portato il tricolore sulla Bainsizza (oggi Banjška) l’altopiano che domina la riva est dell’Isonzo fra Gorizia e Tolmino. Con quel tassello gli italiani avevano completato una prima linea avanzatissima, che controllava tutti i punti strategici al di là della valle. A presidiare il fronte c’erano due armate, la Seconda a nord e la Terza a sud, comandate dal generale Luigi Capello e dal duca Emanuele Filiberto di Aosta: in totale un milione e trecentomila soldati e seimilacentonovantotto cannoni.

I canti del dolore

In trincea
In trincea

A parte la Bainsizza, conquista recente, il conflitto era impantanato da mesi in uno stallo fra trincee contrapposte, dove più dei cannoni contavano fucili, baionette, fili spinati e persino tagliole per volpi, riciclate in funzione anti-uomo. Ma soprattutto contava il fosgene, un gas micidiale che sterminava i nemici come un insetticida fa con le mosche. I primi a usarlo furono gli ungheresi dell’armata imperiale; tutti gli altri li imitarono. Quell’inferno produsse montagne di morti, ma anche decine di canzoni malinconiche, solenni, a volte rabbiose: ogni località dell’Isonzo ne evoca una. Qualche esempio? Su Caporetto incombe il roccioso Monte Nero, alias Krn, perno della prima linea italiana: “Monte Nero, Monte Rosso / traditor della patria mia / ho lasciato la mamma mia / per venirvi a conquistar”. Sopra Plezzo svetta il Canin, oggi paradiso degli sciatori: “Siamo arrivati / sul Monte Canino / e a ciel sereno / ci tocca di dormir”. A ridosso di Gorizia c’è il Monte Sabotino, da cui scattò l’attacco italiano alla città: “E Gorizia tu sei maledetta / per ogni cuore che abbia coscienza: / dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu”.

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Nel museo di Caporetto, i ricordi di Franc

Il ponte di Napoleone Kobarid
Il ponte di Napoleone Kobarid

Chi ha fiato per scarpinare in montagna, ad alta quota può trovare tuttora infinite trincee. Ma certe postazioni militari sono a portata di mano: ce ne sono lungo un facile sentiero che parte da Humčič, a nord di Kobarid e sfiora una bella cascata (Veliki Koziac); o sul colle di Ravelnik, fuori Plezzo; oppure sul Canin, raggiungibile in funivia. A ricordare la guerra restano anche tre sacrari: il solenne ossario di Caporetto, coi resti di settemilaquattordici italiani; la chiesetta di Sv. Duha, nel vallone della Javorca, ultima casa di duemilaottocentootto austriaci; e un rude cimitero fuori Tolmino, con novecentosessanta caduti tedeschi.
Inutile, invece, cercare ricordi tra i vivi, perché l’ultimo testimone della battaglia di Caporetto è morto nel 2001. Si chiamava Franc Medved, era un boscaiolo centenario che da ragazzo aveva assistito allo scontro, tifando per l’Impero.

 

 

Caporetto Ingresso al museo
Ingresso al museo

Ma prima che il tempo cancellasse la memoria, nel 1990 sei abitanti di Kobarid avevano raccolto i ricordi di Franc, corredati da foto, scritti e oggetti d’epoca, e ne avevano fatto un museo (Kobariški Muzej) “…che non è una mostra di armi, ma di vita vera dei soldati”, precisa Darko Knez, uno dei sei, figlio di un combattente di allora. Per gli appassionati di storia militare, visitare quel museo è istruttivo, perché aiuta a capire l’incomprensibile, cioè il perché della sconfitta, che sulla carta non doveva esserci. Certo, gli austriaci avevano preparato lo scontro ammassando forze imponenti, con soldati di diciotto nazionalità diverse provenienti da tutto l’Impero e dall’alleata Germania. Ma gli italiani avevano due atout: il vantaggio di posizione e un’eccellente opera di “intelligence”. Grazie a notizie ricevute da disertori, infatti, i nostri comandi conoscevano da almeno quattro giorni i piani austriaci e addirittura la data dell’attacco.

Una sconfitta per tutti: vincitori e vinti

Il Museo foto Dani7C3
Il Museo foto Dani7C3

Eppure, alle due di notte del 24 ottobre, quando i cannoni presero a tuonare, gli italiani non avevano ancora deciso la tattica di difesa e molti generali non erano al fronte. Il comandante dell’esercito, Luigi Cadorna, era rintanato a Udine; Luigi Capello era a Padova in malattia. Invece Pietro Badoglio, futuro capo del governo, che guidava un corpo d’armata sulla Bainsizza era sul posto; ma se ne andò presto a Udine. Così gli austriaci sfondarono, facendosi strada coi gas prima a nord (Plezzo) poi a sud (Tolmino). Caporetto e il Monte Nero furono accerchiati. E dopo tre giorni di disperata resistenza fu il caos. Ma il museo è dedicato soprattutto a chi non ama né armi né divise, perché col suo crudo realismo diventa un monito contro gli orrori e le falsità della guerra. Esempio di orrore è una foto che ritrae soldati dei due fronti mentre fuggono insieme da una nube di gas impazzita. Esempio di falsità sono certe cartoline (le sole che i soldati potevano spedire) con testo prestampato: “Qui tutto bene”. Così a fine visita, più che le canzoni di trincea, tornano in mente i versi di De André: “Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente”.

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Caporetto in biblioteca e sul grande schermo

Per chi desideri saperne di più sui tragici avvenimenti di Caporetto, ecco cosa “leggere”…

*** “Caporetto: una battaglia e un enigma” di Marco Silvestri, ed. Rizzoli-Bur, Ricostruzione critica della sconfitta italiana, scritta da un docente universitario.

*** “Da Tolmino a Caporetto lungo i percorsi della Grande Guerra fra Italia e Slovenia” di Marco Mantini, ed. Gaspari, Guida pratica ai luoghi delle dodici battaglie dell’Isonzo,

*** “Da Monte Nero a Caporetto” di Fritz Weber, ed. Mursia, Le battaglie dell’Isonzo viste dall’altra parte del fronte, con gli occhi ipercritici di un tenente dell’artiglieria austriaca.

*** “Addio alle armi” di Ernst Hemingway,  ed. Mondadori, Celebre romanzo dello scrittore americano, che assistette alle battaglie dell’Isonzo come inviato di guerra.

*** “Un anno sull’altopiano” di Emilio Lussu, ed. Einaudi,  Un ufficiale interventista va in trincea e capisce cos’è la guerra; romanzo autobiografico dello scrittore sardo, futuro ministro.

e cosa “vedere”…

*** “Addio alle armi” di Charles Vidor e John Huston, con Rock Hudson, Alberto Sordi e Vittorio De Sica. La più celebre versione cinematografica del libro di Hemingway (vedi sopra), che nel 1958 fruttò a De Sica una nomination all’Oscar per il migliore attore non protagonista.

*** “Uomini contro” di Francesco Rosi, con Mark Frechette e Gian Maria Volonté. Versione cinematografica del libro “Un anno sul’altopiano” di Emilio Lussu (vedi sopra). Girato in Jugoslavia per gli ostacoli posti in Italia dalle autorità militari.

*** La-grande-guerra“La grande guerra” di Marco Monicelli, con Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Silvana Mangano. Storia tragicomica di due soldati che vivono da antieroi la guerra di trincea e dopo Caporetto muoiono da eroi veri sul Piave. Leone d’oro a Venezia nel 1959.

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