Martedì 23 Aprile 2024 - Anno XXII

Rifugiati Tibetani in Ladakh

Novembre 2007, Ladakh, estremo nord dell’India. Lo sguardo del giovane “Khampa” è rivolto oltre le vette innevate e i ghiacciai dell’Hymalaya. Verso quella casa che non ha mai conosciuto.
Lhasa è pura utopia per questi rifugiati tibetani, nomadi sulle montagne del Ladakh, India settentrionale. Alcuni di loro, nati e cresciuti in esilio, non hanno mai messo piede in Tibet, oltre quelle creste rocciose.
Sono da diversi giorni loro ospite a Poga Sumdo, un piccolo villaggio a 4500 metri d’altitudine, sulla pista che conduce verso il lago Tso Moriri, a una giornata di fuoristrada da Leh, il capoluogo della regione.
Vivo con questa gente, ospite nelle loro case e divido con loro una quotidianità semplice, fatta di lavoro e di dura sopravvivenza. Ma anche di momenti di grande intimità religiosa, come l’ora della “puja” favorisce.
La preghiera buddhista raccoglie tutti, uomini, donne e bambini, avvolti nelle pelli di capra, nell’unica stanza grande del villaggio, appena intiepidita dagli ultimi raggi del sole. “Om, Mani, Padme, Hum”, recita il “fiore di loto”, la preghiera che ringrazia Buddha per la sua infinita saggezza.
Nel piccolo villaggio di Poga Sumdo, incontro il medico tibetano Dhondup, che una volta al mese, percorrendo le difficili piste d’altura, da Leh raggiunge gli accampamenti nomadi dei Khampa, un’etnia che vive in tenda sulle montagne situate oltre i 5500 metri d’altezza. Chiedo di poterlo accompagnare.
Dhondup porta soccorso e cure, visita chi ne ha bisogno e dona medicine e vaccinazioni. Questa volta la sua missione è di vaccinare i bambini.
Il medico cerca anche di infondere sentimenti di speranza a questo popolo di rifugiati ai quali, dopo l’invasione cinese del Tibet, è proibito tornare nel loro paese.
La vita di questa gente è durissima, in presenza di un clima impossibile, con temperature che in questa stagione (novembre) raggiungono i trenta gradi sotto zero.