Sabato 27 Aprile 2024 - Anno XXII

Ruanda, il confine immaginario

Dian Fossey, la zoologa statunitense celebre per gli studi sui gorilla di montagna, oggi avrebbe compiuto 82 anni (San Francisco, 16 gennaio 1932 – Ruanda, 26 dicembre 1985). Vi proponiamo la lettura di questo brano tratto dal libro “Il confine immaginario” di Vio Cavrini, edito da Polaris. Il primo capitolo “Grazie Dian!” parla proprio di un viaggio in Ruanda tra i gorilla nel Parco Nazionale dei Vulcani

Il Parco Nazionale dei Vulcani in Ruanda
Il Parco Nazionale dei Vulcani in Ruanda

Non era facile allora capire come procedere per poterli raggiungere e quale burocrazia affrontare. Dopo aver effettuato un’incerta prenotazione nella capitale, ci presentammo al quartier generale del parco, dove fu chiaro che incerta prenotazione significava non conoscere esattamente la data della visita. Ma la fortuna ci sorrise e il mattino seguente si presentò per tutti noi l’occasione di incontrare i gorilla nella stessa giornata. Ci sottoposero a un veloce corso sul comportamento da tenere in loro presenza: non fumare, parlare a bassa voce, non fissarli direttamente negli occhi, rimanere chini, mantenere insomma un comportamento dimesso che non potesse essere considerato aggressivo. E soprattutto rimanere immobili nel caso avessero messo in atto una carica nei nostri confronti. Mi sembrarono raccomandazioni eccessive, ma a quei tempi i gorilla non erano molto conosciuti, non c’erano a disposizione i filmati presenti oggi sulla Rete e i documentari televisivi che raccontano la vita e gli studi della dottoressa Fossey.

Un fuoristrada ci condusse ai piedi del vulcano Visokè e da lì iniziò la salita. Eravamo stati avvertiti: l’incontro con i gorilla era quasi garantito, ma la ricerca poteva essere lunga, anche quattro o cinque ore, alle quali si dovevanop aggiungere quelle del ritorno. Quando i gorilla sono tranquilli e hanno cibo a disposizione non si spostano di molto dal luogo dove trascorrono la notte, ma non eravamo in un giardino zoologico e anche un piccolo spostamento nella foresta a tremila metri di altezza, sui fianchi ripidissimi di una montagna, costa agli uomini fatica e sofferenza. Alcuni ranger si accampavano di notte nelle vicinanze dei gorilla per poter dare indicazioni più precise ai colleghi che il mattino seguente avrebbero accompagnato i visitatori. Sempre che non si fossero spostati di molto dopo il riposo notturno, era di solito abbastanza facile rintracciarli. Di solito, ma non fu il caso di quel giorno.

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Ruanda, il confine immaginario

Stimai che fossero una decina, ma il conteggio non era facile perché la fitta boscaglia non mi consentiva di vederli tutti assieme ed io non ero in grado di distinguerli uno dall’altro come certo sapeva fare Dian che aveva dato un nome a tutti loro. Sembravano intenti alle abituali attività. Alcuni mangiavano le loro prelibate foglie appoggiati comodamente ai cespugli, altri dormicchiavano, altri ancora si spulciavano. Due piccoli giocavano rumorosamente a rincorrersi disegnando nei loro volteggi cerchi che comprendevano una breve corsa sul terreno, poi la scalata al tronco di un albero, poi ancora una serie di balzi lungo i suoi rami più bassi, quindi uno slancio verso i rami di un albero vicino, poi la discesa lungo il suo tronco e infine una corsa sul prato di nuovo verso l’albero di partenza. E il circuito si ripeteva fino a quando uno dei due non decideva di accorciare il percorso per arrivare al più presto addosso all’altro.

A quel punto iniziava una lotta fatta di capriole e assalti, in un coro di urla stridule. Tutto questo non interessava gli adulti che li guardavano con sufficienza e dopo un po’ notai che guardavano con sufficienza anche noi. Solo il maschio dominante, il silver back 3 (si tratta del capogruppo, così chiamato per il colore argentato della schiena che i maschi assumono nell’età adulta ndr) sembrava non svolgere alcuna attività precisa, ma in realtà tra tutti era quello che aveva la maggiore responsabilità, perché doveva controllare e proteggere il branco. Lo faceva con serietà e impegno, seduto in posizione più alta rispetto agli altri, attento e vigile. Ogni tanto scendeva nel gruppo, scrutava i compagni ad uno ad uno poi tornava al suo posto.

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Queste ispezioni fermavano il rumore dei piccoli che interrompevano i giochi, timorosi al cospetto del gran capo. Dimostravano una forza terribile quando spezzavano con una torsione netta del polso rami di dimensione tale che non potevo fare a meno di rabbrividire al pensiero che quelle mani potessero riservarmi lo stesso trattamento.

“Dio mio” – mi veniva da pensare – “sono quasi come noi”! Nonostante il mantello peloso, i movimenti goffi ed il linguaggio limitato all’apparenza a pochi suoni, i comportamenti avevano molto di umano, quando ad esempio accudivano ai piccoli o quando si scambiavano rami buoni da mangiare. E quando li guardavo negli occhi, nei loro occhi gialli/ mostravano l’espressione umana di chi sta pensando, di chi sta per dirti qualcosa. Forse qualcuno di noi fece un movimento troppo brusco o qualcun altro sembrò avere uno sguardo minaccioso verso quegli occhi gialli.

Ruanda, il confine immaginario

O forse fu soltanto un gioco, una blanda prova di forza per farci capire, se mai fosse stato necessario, che eravamo in casa loro e che avrebbero potuto spazzarci via con facilità. Qualunque fosse il motivo, un giovane maschio si alzò e si battè vigorosamente il petto. Era il segnale di una carica imminente che puntualmente avvenne. Riuscii ad assistere solo all’inizio della finta aggressione, quando il gorilla con le braccia alzate e pugni serrati si gettò verso di noi urlando come un forsennato, la bocca spalancata e i canini in evidenza. Memore delle istruzioni ricevute, come tutti i miei compagni chinai la schiena coprendomi la testa con le braccia e appoggiai la fronte a terra.

In quella posizione non riuscivo a vedere il gorilla che era arrivato di fronte a me ed ora se stava immobile ad urlare la sua rabbia. Quando secondo lui avevamo capito la lezione se ne tornò sui suoi passi, tranquillo come se nulla fosse accaduto. Alzai gli occhi e intorno a me osservai di nuovo la scena che era rimasta immutata. C’erano quelli che mangiavano e quelli che sbadigliavano. I due piccoli che prima si rincorrevano ora si rotolavano nell’erba. Poi si fermarono e uno di loro ci guardò, con severità mi parve, si alzò con i pugni serrati e si battè il petto ripetutamente, come a ribadire la precedente minaccia.

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Dopo un’ora decisero di spostarsi. Le guardie ci fecero cenno di non muoverci, perché non li avremmo seguiti. Il tempo della visita era ormai terminato e comunque, pensai, la loro agilità non ci avrebbe permesso di farlo. Si sparpagliarono in diverse direzioni, come per impedirci di seguirli, ed il giovane maschio che prima ci aveva caricato venne di nuovo verso di noi, ma questa volta solo per attraversare il nostro gruppo.

Impossibile per me chiamarli animali perché mi sembra che la parola indichi esseri viventi molto diversi o distanti da me, come i cani, i gatti o anche i leoni. Nei gorilla invece riconoscevo una parentela molto più stretta di quanto il loro mantello peloso potesse suggerire. Non potevo che ringraziare Dian Fossey per il lavoro che stava svolgendo a Kari-soke a pochi chilometri da lì e che mi aveva permesso di vivere una simile esperienza. La ringraziai ancora ventitré anni dopo quando ritornai in Africa per visitare un altro gruppo di gorilla di montagna, nella foresta di Bwindi in Uganda.

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