La prima ad arrivare è una ragazza dal fisico slanciato, la carnagione pallida e i lunghi capelli color rame. Una bellezza irlandese. Ma di irlandese non ha che i tratti. Il suo atteggiamento è distaccato, quasi altero. Ritratta in sé, legge un libro di poesie di Yeats. Sono circa le quattro del pomeriggio. Potrebbe starsene all’ombra, sotto la tettoia di lamiera di una baracca travestita da bar. Invece no. Impassibile, sfida la calura di Vientiane, la capitale del Laos. Ogni tanto solleva lo sguardo e osserva la parabola disegnata dal sole sulle acque color cioccolata del Mekong.
Tramonto sul grande fiume
Un’ora dopo lo spiazzo di pietrisco sulle rive è invaso da una folla di giovani, per lo più occidentali, per lo più taciturni, per lo più alle prese con romanzi o libri di poesie e comunque senza alcuna voglia di intrecciare le proprie solitudini letterarie. Hanno percorso migliaia di chilometri per scoprire un Paese dall’aura misteriosa e leggendaria, l’antico Lang Xang, il “Regno di un milione di elefanti”. E ora sono tutti lì riuniti per assistere al miraggio romantico, l’abracadabra che dovrebbe svelare il segreto del Paese-scrigno: il tramonto.
Anch’io del resto sono lì per questo, seduto in disparte lungo il Fa Ngoum Quay, il lungofiume bordeggiato di secolari alberi di teak che qualcuno, memore dell’era coloniale francese, continua a chiamare pretenziosamente “croisette”. Alle nostre spalle, nel frattempo, si è radunato un gruppo di laotiani. Non sono interessati al grande segreto. Fissano l’altra sponda e sognano di raggiungere l’Eldorado: la Thailandia. Sarebbe inutile spiegare loro che quel regno così vicino è sì un Eldorado, ma traviato da un capitalismo selvaggio. Distruggeremmo l’ultima illusione.
La notte più nera dell’Indocina
Poi il tramonto scende come una cascata sulle acque del Mekong, la madre di tutti i fiumi, cariche di limo, miti e memorie. Fa effetto pensare che durante i diluvi monsonici il livello si alza di una decina di metri. Il sole, un disco perfetto, rosso cremisi, tremola nell’aria incandescente. Pochi istanti e il cromatismo violento si impreziosisce di sfumature tenui mentre il rosso si frastaglia in una girandola arancio, porpora, zafferano. All’unisono, dagli zainetti spuntano le camere digitali. Persino l’algida cultrice di Yeats non resiste alla tentazione di immortalare quella fantasmagorica messinscena. Finché, d’un tratto, lo show finisce.
L’umida ala della notte si distende sulla croisette, una notte che a Vientiane, data la scarsità di energia elettrica, è più nera che nelle altre città dell’Indocina. A giudicare dall’espressione attonita dei volti, nessuno ha svelato l’enigma sfingeo del Laos. Buio totale. Persino ritrovare la strada per l’hotel non è facile. La capitale della Repubblica Popolare Democratica del Laos, uno degli ultimi Paesi comunisti al mondo, è una città fatiscente, anarchica, dall’encefalogramma disordinato. Tutto il contrario della microscopica Luang Prabang, quel che resta del mitico Regno di un milione di elefanti. E’ lassù, in quella gemma scintillante incastonata nel cuore del Paese, che mi ero avvicinato al segreto.
Luang Prabang, la bella addormentata
A vederla di lontano, dal piccolo sampan a motore che durante la stagione secca fa lo slalom tra i gorghi del Mekong, la grande collina di Phu Si sembra eterea, come se appartenesse al reame dei sogni. È un effetto illusionistico prodotto dall’umidità del primo mattino che avvolge il paesaggio in una chiazza opalescente. Poi si sbarca e alle falde della collina si scopre una città minuscola, una penisola insinuata timidamente tra l’immenso Mekong e il Nam Khan, un suo affluente. In quel tratto il Mekong è arancione, il Nam Khan verde.
Immobile come una miniatura laccata, Luang Prabang sonnecchia nella policroma frontiera tra la penombra e la luce impetuosa. Sembra rinchiusa in una bolla del tempo. Se nella caotica Vientiane si accentra il potere politico del Pathet Lao, il partito unico salito al potere nel 1975 dopo aver rovesciato la monarchia, Luang Prabang è illuminata dalla imperturbabile serenità del volto di Buddha. È fascinosa e rasserenante Luang Prabang. Nel 1995 l’Unesco l’ha proclamata “patrimonio dell’umanità”. Ma la sua è una bellezza sottile, nascosta, che si rivela solo se si cammina al rallentatore, assecondando il suo ritmo di vita noncurante degli orologi.
Pagode e templi incantati
Immerse in una quiete letargica e protette dalle statue dei geni ancestrali, i Naga, coi loro “stupa” scintillanti, i loro “baniani” sacri, i ciuffi di buganvillee scarlatte e di ibischi rosso squillante, le tante pagode incantano il viaggiatore. I suoi ventinove templi, tra i quali svetta il mirabile Vat Xieng Thong, ammaliano per l’amore dell’esattezza con il quale ogni dettaglio, dalle decorazioni in stucco dorato agli intarsi in legno, è stato cesellato. Uno spettacolo di astratta e raffinata serialità che sembra allestito da un geniale architetto-ricamatore. E lì, di fronte a quel gioco di apparenze, viene voglia di credere alla leggenda.
Si tramanda che l’Onnisciente, mentre riposava sul suolo laotiano, abbozzando un sorriso, abbia indicato al discepolo Ananda il luogo dove un giorno sarebbe nata Luang Prabang, “una capitale ricca e potente”. In realtà si sa che il Buddha non ha mai calcato questo suolo e tuttavia il proliferare di racconti fiabeschi testimonia quanto sia radicata la religiosità in questa appartata Shangri-la dello spirito, che una volta era stata davvero una capitale ricca e potente.
Qui l’arte è un prodigio di esattezza
È stata lunga la sua epoca d’oro. Iniziò nel 1353 con il sovrano Fa Ngoum e in un carosello di vicissitudini si concluse sei secoli più tardi. Se oggi Luang Prabang suggerisce l’impressione di una città che è difficile situare in un “quando” e in un “dove”, è proprio perché il regime comunista la condannò a un isolamento di vent’anni per quel passato regale del quale va tuttora orgogliosa e che a bassa voce rimpiange.
Solo negli anni Novanta il governo, messo alle corde dalla crisi economica, si trovò costretto ad aprire al turismo e agli investimenti stranieri. Così Luang Prabang, la “bella addormentata”, d’un tratto si risvegliò dal grande sonno e rimise a lucido i suoi tesori. Naturalmente, il passaggio non è stato facile e ancora oggi chi ha la fortuna di visitarla non può fare a meno di chiedersi: resisterà la prediletta del Perfetto all’assalto della modernità? Riusciranno gli artigiani a conservare la propria straordinaria maestria? Fino a quando la sua quiete irreale sarà scandita dagli echeggianti gong dei suoi santuari?
Artigianato antico
Domande da occidentali. Loro, gli abitanti di questa Lilliput circondata dalla foresta primaria, pensano ad altro. Devono arrabattarsi per sopravvivere. All’alba i bonzi ammantati di arancione escono dai monasteri e con le ciotole di legno dorato sfilano per la questua. Alle sette i mercatini si animano. Qualcuno sbocconcella spiedini di topo, il piatto dei poveri tra i poveri. Le strade si riempiono di biciclette, motorini e tuk-tuk, i pittoreschi taxi a tre ruote. Gli argentieri, con gli arnesi degli avi, forgiano a mano coppe minuziosamente istoriate, vassoi, calici, gioielleria.
Gli artigiani del legno lavorano con pazienza impiegando attrezzi e metodi del tempo che fu. Le donne tessono stoffe di cotone e seta con telai fabbricati decenni fa. Un’assoluta precisione geometrica accomuna i loro prodotti e li fa assomigliare agli antichi tesori in mostra nel Palazzo Reale, oggi adibito a museo. Fino alla pausa, quando un sole implacabile pende a perpendicolo sui vicoli inondati dal profumo dei frangipani. C’è chi sprofonda nella siesta e chi ingaggia accanite partite a dama sui tavolini ombreggiati dei bar lungo le sponde del Mekong.
Occidente in arrivo
Sembra che la ruota del tempo si ostini a girare pigramente. Ma non è così. Ormai la strada principale dai mille nomi, al centro di una rete viaria che ha l’ordine cristallino di un “mandala”, suggerisce una “imagery” da cartolina turistica, costellata com’è di boutique, graziosi caffè e ristorantini, il Canadian Bar o lo Scandinavian Bakery, sotto i cui patios si gode un po’ di refrigerio e si assiste allo spettacolo di fricchettoni fuori tempo massimo che vagabondano in cerca di qualche dose di oppio.
Poco distante, “L’elephant” si dà arie da locale esclusivo. Adagiati su poltroncine di vimini, all’ombra di grandi tendaggi, si può scegliere tra specialità locali e internazionali. In sottofondo, musica jazz alternata a brani di Mozart. Non fosse per la vegetazione sontuosa, per le vecchie case coloniche di fronte e per una pagoda che fa capolino dietro l’angolo, sembrerebbe di trovarsi in un angolo del “lontano Occidente”.
Delicate atmosfere
Finché, improvviso, cade il tramonto, il momento più gioioso. I giovani novizi lavano le tuniche nelle acque limacciose del Mekong, mentre a poca distanza le ragazze, fasciate nei semplici ed eleganti sarong, fanno il bagno lasciando il seno quasi scoperto e lanciando sorrisi fuggevoli verso i novizi. Si fatica a immaginare che, a poco più di un’ora di sampan, la natura mette in scena uno spettacolo di selvaggia maestosità. Le escursioni, dovunque ci portino, introducono in un mondo di bellezza primigenia che stordisce i sensi e instilla un acuto senso di estraneità.
Per quanto meraviglioso sia il diorama del “grande verde”, non si vede l’ora di lasciarsi cullare tra le braccia della piccola Luang Prabang, languida e mite. È un sollievo rivedere le guglie delle sue pagode dorate. Una cenetta all’Elephant o allo Scandinavian Bakery, sotto una luna delicata come una lanterna di carta, cancella l’impressione di aver violato un territorio tabù.