Mercoledì 24 Aprile 2024 - Anno XXII

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Himalaya, i volti della gente

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a cura della Redazione

Il vento scende da vette inviolate,
s’infila nelle valli,
solleva polvere e sabbia,
modella gli angoli più remoti e sagoma pendii.
Il sole e il ghiaccio suggellano questo continuo scolpire naturale.
Il tempo e l’altitudine,
testimoni silenziosi.
La gente, in simbiosi con la natura,
di cui sopporta la tragica bellezza,
riflette nei volti lo stesso destino
e condivide i ritmi di una quotidianità senza tempo.
Eppure, nonostante una realtà di difficoltà e rinunce,
la serenità, che traspare dai loro sguardi e dai loro gesti,
semplici e spontanei, diventa contagiosa.
Alcune immagini,
unico ricordo di un’esperienza tra le genti himalayane,
provano a trasmettere la solarità e la purezza
di questa cultura remota e incessante.
I pensieri prendono forma nella mia mente mentre i miei occhi sono immersi nella vita quotidiana dello Zanskar. Il mondo himalayano, uno sterminato universo che si estende lungo migliaia di chilometri, ospita le più alte vette del mondo ed è abitato da decine di etnie differenti. Paesaggi, spiritualità e sguardi in questo paese hanno un unico fil rouge che li unisce: la profondità.
Il mio obbiettivo ne è rimasto abbagliato. Da qui è nata l’idea di raccogliere tutti gli scatti nel libro fotografico “Himalaya. Luoghi, culture e spiritualità” realizzato a 4 mani, con l’aiuto della penna di Piero Verni, per un reportage pieno di sentimento. I volti della gente che abita queste montagne condivide con chi li incontra una sensazione impalpabile: “improvvisamente ci si sente a casa, nel mezzo di un deserto di rocce e nuvole, dentro una capanna, senza avere una lingua in comune” (Piero Verni).

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Dharamsala, la little Lhasa dell’India

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a cura della Redazione

Arrivare a Dharamsala è quasi come uscire dall’India. A ragione viene chiamata Little Lhasa. Il caos delle città indiane è mitigato dalla pace buddista. È come se la presenza di Sua Santità il Dalai Lama, che vi si è rifugiato nel 1959, influisse sugli abitanti.
Qui vive la più importante comunità di esuli tibetani in India ed ha sede il parlamento tibetano in esilio. I più vecchi, settantenni rugosi che non abbandonano i vestiti tradizionali, hanno vissuto l’occupazione cinese del Tibet in prima persona. I più giovani, coloro che nascono e crescono in India, non hanno mai visto la terra dei loro padri.
Passeggiando a Dharamsala difficilmente si vedono i colorati sari delle donne indiane, ma l’attenzione viene catturata dal rosso dei vestiti dei monaci buddisti. Il tempo è scandito dai rintocchi delle campane del monastero che chiamano i religiosi in preghiera. E dal battito di mani mentre gli stessi monaci, la sera al tempio, dibattono sugli insegnamenti del buddismo.
Alzando gli occhi al cielo si vedono le colorate bandiere di preghiera che si stagliano contro il cielo. Sullo sfondo le nevi dei primi contrafforti himalayani ricordano agli esuli la loro patria.
Con un po’ di fortuna si può vedere il Dalai Lama e ricevere un po’ della sua pace interiore tramite il suo cenno di saluto. Oppure partecipare alle lezioni pubbliche che tiene quando non è in viaggio, sedendo a terra tra una moltitudine di monaci. Seguendo il sentiero attorno al tempio si cammina tra gli alberi sui quali sono appese centinaia di bandiere di preghiera. Lungo il tracciato i mantra sono scolpiti sulle rocce dipinte di bianco e sulle ruote di preghiera e ripetuti senza sosta dai monaci che le fanno girare. È facile, così, immergersi in una dimensione spirituale, meditativa e contemplativa.

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Ondaviva, il fascino di Trieste

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a cura della Redazione

Il filo sottile ma profondo che lega Trieste ad usi e costumi di vita quotidiana è indissolubilmente legato al mare, al vento, ai circoli nautici ed al mondo di chi vive il mare non solo come elemento naturale ma come filosofia di vita.Un omaggio al mondo della vela ed agli aspetti culturali, artistici e sociali che questa disciplina sportiva inevitabilmente coinvolge.
Una splendida Trieste protagonista indiscussa con i suoi palazzi che si trasformano in quinta teatrale, per godere del fascino che le regate, la passione per la vela e per il mare riescono a trasmettere.
Un legame tra i simboli marinareschi, le statue e gli alto rilievi che troneggiano sui palazzi nel cuore della città. Una città che svela la sua vera anima, fatta di magiche luci, profumi del mare e dal possente alito della bora.
Le innumerevoli pagine che sono state dedicate al mare, e tutte quelle scritte nel tempo da illustri viaggiatori o scrittori su Trieste oscillano tra sentimenti molto forti e contrastanti tra loro. Sono comunque pagine di grande suggestione ed intimo lirismo. Trieste ama celebrare il suo passato quale città porto per eccellenza dell’Impero Asburgico e si prepara a diventare una capitale d’area, a cavallo tra i nuovi confini che si stanno delineando tra i paesi del blocco centro europeo.
Trieste, città dei caffè, delle piazze, delle chiese e dei musei, ha celebrato un po’ tutti i suoi gioielli artistici e architettonici, ma il mare rimane la sua vera forza emotiva.Nel volume “Trieste città delle statue” Mara Rondi scrive che “una svariata molteplicità di culture, di gusti, di curiosità, di commerci e di genti, ha dato un’impronta indelebile a Trieste che ancor oggi si identifica nella varietà stessa dei suoi linguaggi e nelle sue trasversalità epocali”.
Passato, presente e futuro: un trinomio che Trieste porta avanti di pari passo nel suo processo di crescita. In questo contenitore urbano così complesso ma estremamente stimolante, le antiche architetture riportano agli splendori di una grande capitale dell’Impero Asburgico, la città - porto per eccellenza da cui salpavano i grandi velieri per poi ritornare carichi di merci e opere d’arte. Il futuro di Trieste sarà ancora una volta legato al mare così come lo è stato in passato.

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Italia, i “Mercati del Pesce” dei quattro mari

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a cura della Redazione

Le coste italiane si sviluppano per circa 7500 chilometri lungo quattro mari ancora abbastanza pescosi. Innumerevoli quindi i mercati e i mercatini dove acquistare pesce fresco, perfino a Milano, che è addirittura la piazza di compravendita più importante.
Scorrendo l’indice di un ricettario della cucina regionale italiana si nota subito che i piatti di terra sono più numerosi di quelli di mare. La ragione probabilmente risale ai tempi in cui le coste erano meno praticabili: natanti modesti, incursioni piratesche, guerre e guerricciole di mare.
Oggi invece si mangia molto pesce e i mercati vecchi e nuovi sono sempre più numerosi ed affollati. Qualche esempio?
La Pescheria di Chioggia, frequentata anche dai vicini veneziani, si affaccia sul canale che attraversa la cittadina ed è coperta da un tendone rosso che avvolge sarde, granseole, anguille, scampi e frutti di mare di insolita luce rosata.
A Genova, nel caratteristico Mercato Orientale, assieme al pescato locale si compera lo stoccafisso, storico ingrediente della gastronomia ligure come il basilico, le altre erbe aromatiche e i profumati funghi dell’entroterra.
A Viareggio, due volte al giorno, canocchie, triglie, calamari e gli altri pesci del Tirreno vengono portati a terra dalle barche e venduti sulle bancarelle lungo il canale vicino al molo.
A Bagnara Calabra c’è sempre un capannello di gente che aspetta l’arrivo delle barche con il pesce, già in buona parte prenotato e la cui vendita è compito delle donne dei pescatori. Gli avannotti del pesce azzurro vengono tenuti da parte per preparare la “rosmarina” in un infuocato mix con il peperoncino.
A Marsala il mercato è in un’antica struttura del centro e i banchi del pesce si alternano a quelli degli ortaggi e ai banchetti improvvisati di qualche pescatore.
Però la maggior parte del pescato fresco italiano confluisce al Mercato all’Ingrosso di Milano, il secondo in Europa, dove la domanda è molto elevata e si spunta il prezzo più alto. Da qui, il pesce invenduto viene smistato verso altri mercati italiani, subito dopo la chiusura, nelle prime ore del mattino.

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Baracoa, dove comincia Cuba

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a cura della Redazione

E’ bella Baracoa, ma è lontana da tutto. Sembra essere distante persino dalla stessa Cuba; ne è stata la prima capitale (1511-1514) ma successivamente e per lunghi anni è di fatto rimasta quasi completamente dimenticata.
La sua particolare posizione geografica ha senza dubbio contribuito in larga parte a tale esilio forzato; si trova infatti nell’estremità orientale dell’isola, in una piccola pianura affacciata sull’Atlantico, assediata da monti che giungono fino al mare.
Per scoprire Baracoa è necessario calarsi nella natura bellissima e selvaggia che la circonda, approfittando delle numerose escursioni che è possibile compiere nei dintorni. A cominciare da quella che conduce al “Rio Toa”, il più grande fiume di Cuba. Quindi a “El Yunque”, la montagna piatta simbolo di Baracoa, che gli abitanti chiamano la “isla de piedra”. A circa trenta chilometri dalla città, in direzione est, ecco il “Rio Yumurì”, uno dei molti della regione, che nel tratto finale scorre tra le imponenti pareti di un canyon eroso nel tempo dal suo stesso corso. Ancora verso est, si procede per circa cinquanta chilometri lungo una strada decisamente accidentata, fino alla “Punta Maisì”, il lembo più orientale dell’isola caraibica. Infine, a ovest della città, si incontra Playa Maguana, la più bella spiaggia in assoluto.
Non si renderebbe giustizia a Baracoa se si dimenticasse di segnalare che sorge in una regione straordinariamente bella e ancor oggi dalla natura quasi intatta.
E’ la parte di Cuba più ricca di verde, con boschi di legni pregiati quali il cedro e possiede la più alta percentuale di fauna e flora endemica.
Si incontrano gli “almiquì”, piccoli mammiferi insettivori, la “polinita picta”, una conchiglia terrestre considerata tra le più belle del mondo in quanto a colori; ancora, rare felci arborescenti.
L’inquinamento, speriamo per molto tempo ancora, è pressoché sconosciuto; i molti fiumi che arrivano dalle montagne sfociano puliti nel mare.
Baracoa, un piccolo paradiso. Forse un po’ “decentrato”, ma paradiso.

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La Fiesta de los Caballos del Vino

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a cura della Redazione

La festa dei Cavalli del Vino, che si tiene a Caravaca, nella provincia spagnola della Murcia, nasce come pura estrazione popolare mescolando realtà, leggenda, narrazione epica. La tradizione della festa è ambientata in pieno secolo XIII, quando Caravaca si trovava sul confine tra la Castiglia cristiana e il regno dei Mori di Granada e la presenza della Croce a Caravaca aveva già fama di protezione e miracolo.
Secondo la tradizione leggendaria si parla dell’assedio del castello la cui custodia era stata affidata all’Ordine dei Templari, durante gli anni 1265-1310.
I Mori del vicino regno di Granada intraprendono una spedizione punitiva e di saccheggio. In occasione di una di queste incursioni ammazzano molti cristiani e ne fanno prigionieri altri, anche se alcuni di essi riescono a rifugiarsi all’interno della fortezza. L’assedio viene condotto dai Mori ricorrendo ad ogni tipo di pressione, compresa quella di avvelenare i pozzi d’acqua facendo insorgere epidemie e accentuando i disagi per i cristiani feriti in combattimento.
E’ in questa fase che alcuni Templari, particolarmente coraggiosi, riescono ad eludere la sorveglianza dei Mori e arrivano nella località chiamata Campillo, distante qualche miglio e da allora denominata “Campillo de Los Caballeros”. Qui riempiono alcuni otri di vino e beffando nuovamente le linee dei musulmani, introducono la bevanda nel castello e immergono la reliquia della Croce nel liquido per benedirlo, dandolo poi in bevanda agli infermi assediati, che istantaneamente guariscono.La leggenda dell’assedio permane nella memoria popolare come gesta di coraggio e di fede. Allo stesso modo dei romanzi di “frontiera”, quella dei “Cavalli del Vino” si inserisce nel filone dell’epoca cavalleresca e della conquista musulmana.