Lunedì 29 Aprile 2024 - Anno XXII

Diario Eno-turistico da Gorizia a Monfalcone

Gorizia vista dall’altoComincia a Gorizia, dopo un breve trasferimento da Monfalcone, la seconda giornata della già ben avviata (perché subito rivelatasi intrigante) kermesse gastro-giornalistica nel Friuli-Venezia Giulia; la gentile guida mi spiega che ad abbinare il nome della più importante Gens romana e la regione della Serenissima Repubblica fu il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, davvero una fausta invenzione geografica. Sul pullman ho il mio bel da fare a spiegare ai colleghi della stampa estera le intricate e millenarie vicende storiche della zona attraversata. Continuo “via-vai” lungo i secoliIl castelloAll’orizzonte, dove la montagna si appiattisce, ecco stagliarsi il valico della Porta d’Italia, … Leggi tutto

Gorizia vista dall'alto
Gorizia vista dall’alto

Comincia a Gorizia, dopo un breve trasferimento da Monfalcone, la seconda giornata della già ben avviata (perché subito rivelatasi intrigante) kermesse gastro-giornalistica nel Friuli-Venezia Giulia; la gentile guida mi spiega che ad abbinare il nome della più importante Gens romana e la regione della Serenissima Repubblica fu il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, davvero una fausta invenzione geografica.
Sul pullman ho il mio bel da fare a spiegare ai colleghi della stampa estera le intricate e millenarie vicende storiche della zona attraversata. 

Continuo “via-vai” lungo i secoli

Il castello
Il castello

All’orizzonte, dove la montagna si appiattisce, ecco stagliarsi il valico della Porta d’Italia, evidentemente lasciata sempre aperta visto il viavai cominciato già nella preistoria. D’altro canto il sole e il tepore hanno sempre fatto aggio sul freddo e sulle nebbie, soprattutto quando ci si doveva arrangiare senza il “pile” e i piumini d’oca;  fu così che (comunque non per merito del viceministro con delega al Turismo, Rutelli) il Belpaese fu baciato da una sorta di strano turismo (invasioni, sola andata) che in un certo senso anticipò i charter dei Russi sulla Riviera Romagnola; i quali ex tovarich, però, comprate le scarpe “made in Marche” e scolati sei fiaschi di Sangiovese al giorno, dopo una settimana tornano nella tundra).
Fra le antiche e le recenti “New Entries” ecco pertanto valicare la Porta d’Italia i Goti, i Longobardi, gli Alani, gli Unni & Co., via via fino agli attuali ex dipendenti di Ceausescu. Tanto fitto viavai e le derivanti difficoltà linguistiche creavano però nelle genti locali una certa difficoltà di catalogazione dei visitatori.
Il problema fu comunque risolto dai vecchi triestini che un bel giorno decisero di denominare “i s-ciavi” (leggere come “cecio” o come il molisano Di Pietro pronuncia Ch’Azzecca) tutte le etnie – ove si fa riferimento soprattutto agli Slavi – provenienti dai Balcani. Simile scarsa e frettolosa considerazione non differisce di molto nella non lontana Venezia, vedi la celeberrima Riva degli Schiavoni nel bacino di San Marco.

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Altalenando fra i diversi idiomi

Le case color pastello
Le case color pastello

Le perplessità degli scribi forestieri sulle mie interpretazioni storiche aumentano vieppiù appena termino di raccontare una barzelletta non certo permeata di ideali estero-nazionalistici (non per niente tengo per una squadra chiamata Internazionale). La barzelletta? Eccola. All’incirca dalle parti che stiamo visitando, il 24 Maggio 1915 – giorno dell’entrata in guerra dell’Italia – un giovane tenente dell’Esercito Italiano abbatte la sbarra di confine e agitando la pistola urla “Ahò, dò stà er nemico!?”, al che un contadino lo ferma con una manata sul petto e gli risponde “Te xe tì il nemico”. Al termine della narrazione il silenzio dei colleghi stranieri è ampiamente compensato dal vistoso compiacimento della dotta furlana doc che ci guida e accompagna nell’escursione.
D’altro canto non è che uno si inventi una aficiòn mitteleuropea solo per fare il bastian contrario. Il fatto è che da queste parti gli Asburgo e segnatamente Maria Teresa (metà del ‘700) sono tuttora amati e riveriti. Fu ad esempio l’imperatrice a decretare e imporre la scuola d’obbligo con annesso insegnamento di ben quattro idiomi: tedesco, sloveno, italiano e quel friulano che solo nel 1999 – informa e chiosa la guida con una puntina polemica – la Repubblica Italiana ha riconosciuto come lingua. E se mai fosse il caso di procedere a confronti, tra chi difende le proprie identità e diversità, meglio i Friulani dei Lumbard bossiani che per l’idioma locale poco o niente hanno fatto (a Milano, ormai, canti Oh Mè Bela Madunina e ti prendono per matto, ma tirem innanz). Viva dunque le tante culture presenti da queste parti, mercè la citata Porta d’Italia lasciata aperta; ce n’è per tutti, e dalla brava guida imparo pure che il friulano vanta influssi ladini e celtici (tanto per esibire un po’ di filologia spiccia, Cane si dice ghian, e Gatto ghiat.

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