Venerdì 26 Aprile 2024 - Anno XXII

Il Messico e la sua gente

"Messico, con il suo nopal e il suo serpente (…) fiorito e spinoso, secco e solcato dagli uragani, violento di eruzioni e di colori (…) l’ultimo paese magico; magico di antichità e di storia, magico di musica e di geografia" così lo ha definito il poeta cileno Pablo Neruda.
Messico, paese di silenzi e di voci, di natura assoluta e di civiltà, dove ognuno di noi può cercare, e trovare, tra le tante voci la sua, voci che a ogni viaggio possono sembrare differenti, come i nostri stati d’animo. Voci che si possono incontrare all’ombra delle massicce chiese costruite dai domenicani a San Cristobal de las Casas in Chiapas dove, dopo la fine dell’insurrezione zapatista, le tessitrici maya hanno ripreso a raccontare le antiche leggende sui loro huipiles, i vestiti multicolori. Dei, serpenti, rane, scorpioni, farfalle, antenati, l’onnipresente sole, racchiudono una vera e propria Bibbia scritta sulla stoffa.
Un mondo muto per chi non sa ascoltare, ma ancora capace di parlare ai suoi fedeli nel folto delle foreste, tra le montagne accidentate scavate da gole e dirupi dove il "Signore della terra", padrone delle nuvole e della pioggia, fa risuonare il rombo delle grandi cascate di Agua Azul.
C’ è il silenzio, pieno di voci, delle foreste di pietra dello Yucatàn, come a Uxmal dove l’archeologo americano Stephens, 150 anni fa, dall’alto della Piramide dell’Indovino si è trovato davanti palazzi e piramidi "grandiose e ben conservate, con un effetto pittoresco, simile a quello prodotto dalle rovine di Tebe sul Nilo".
Basta ascoltare e lasciarsi sorprendere, perché il Messico colpisce quando meno te lo aspetti, nell’immenso caleidoscopio del Monstruo, Città del Messico, un incubo ecologico capace di provocare l’irresistibile desiderio di fuggire, ma anche una città d’una bellezza travolgente. O nel silenzio, pieno di voci, delle città maya che si alzano come astronavi di pietra sopra la nebbiolina che invade la selva, ultima testimonianza di una civiltà ormai morente, quella degli antichi libri del Chilam Balàm che avevano preannunziato: "Loro verranno. I saggi verranno uccisi, i templi distrutti, e tutto sarà peccato".
Loro, i conquistadores, sono arrivati portando una tempesta di ferro e di fuoco e creando, inconsapevolmente, un’irripetibile contaminazione tra mondi apparentemente inconciliabili. Da allora la capacità del Messico di assorbire e rielaborare non ha più smesso di produrre intriganti sincretismi, religiosi, artistici, politici e culturali. Forse perché era l’unica possibilità di sopravvivenza per un paese “così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”, come sospirava nei suoi ultimi anni di potere il vecchio dittatore Porfirio Diaz.
E così solo nel Secolo Breve appena trascorso il Messico ha prodotto la prima grande Rivoluzione moderna, archetipo dei sogni di emancipazione sociale di tutto un continente. Ha prodotto l’esplosione artistica dei murales, opera di artisti convinti di portare i musei nelle strade delle città, ma ha prodotto anche telenovelas sfornate con ritmi giapponesi, piene di maliarde encantadoras che inchiodano davanti ai teleschermi milioni di telespettatori.
Poi ha anche stupito il mondo con il subcomandante Marcos, icona di una “rivoluzione impossibile”, quella della prima ribellione contro una globalizzazione che esclude.
Così, persino con le sue dure contraddizioni sociali, il Messico continua a raccontare la creatività, la fede, le paure, le credenze, i colori, la gioia, con il "potere – come sosteneva Andrè Breton – di mantenere aperto un registro inesauribile di sensazioni, dalle più dolci alle più insidiose".

“Messico, con il suo nopal e il suo serpente (…) fiorito e spinoso, secco e solcato dagli uragani, violento di eruzioni e di colori (…) l’ultimo paese magico; magico di antichità e di storia, magico di musica e di geografia” così lo ha definito il poeta cileno Pablo Neruda.
Messico, paese di silenzi e di voci, di natura assoluta e di civiltà, dove ognuno di noi può cercare, e trovare, tra le tante voci la sua, voci che a ogni viaggio possono sembrare differenti, come i nostri stati d’animo. Voci che si possono incontrare all’ombra delle massicce chiese costruite dai domenicani a San Cristobal de las Casas in Chiapas dove, dopo la fine dell’insurrezione zapatista, le tessitrici maya hanno ripreso a raccontare le antiche leggende sui loro huipiles, i vestiti multicolori. Dei, serpenti, rane, scorpioni, farfalle, antenati, l’onnipresente sole, racchiudono una vera e propria Bibbia scritta sulla stoffa.
Un mondo muto per chi non sa ascoltare, ma ancora capace di parlare ai suoi fedeli nel folto delle foreste, tra le montagne accidentate scavate da gole e dirupi dove il “Signore della terra”, padrone delle nuvole e della pioggia, fa risuonare il rombo delle grandi cascate di Agua Azul.
C’ è il silenzio, pieno di voci, delle foreste di pietra dello Yucatàn, come a Uxmal dove l’archeologo americano Stephens, 150 anni fa, dall’alto della Piramide dell’Indovino si è trovato davanti palazzi e piramidi “grandiose e ben conservate, con un effetto pittoresco, simile a quello prodotto dalle rovine di Tebe sul Nilo”.
Basta ascoltare e lasciarsi sorprendere, perché il Messico colpisce quando meno te lo aspetti, nell’immenso caleidoscopio del Monstruo, Città del Messico, un incubo ecologico capace di provocare l’irresistibile desiderio di fuggire, ma anche una città d’una bellezza travolgente. O nel silenzio, pieno di voci, delle città maya che si alzano come astronavi di pietra sopra la nebbiolina che invade la selva, ultima testimonianza di una civiltà ormai morente, quella degli antichi libri del Chilam Balàm che avevano preannunziato: “Loro verranno. I saggi verranno uccisi, i templi distrutti, e tutto sarà peccato”.
Loro, i conquistadores, sono arrivati portando una tempesta di ferro e di fuoco e creando, inconsapevolmente, un’irripetibile contaminazione tra mondi apparentemente inconciliabili. Da allora la capacità del Messico di assorbire e rielaborare non ha più smesso di produrre intriganti sincretismi, religiosi, artistici, politici e culturali. Forse perché era l’unica possibilità di sopravvivenza per un paese “così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”, come sospirava nei suoi ultimi anni di potere il vecchio dittatore Porfirio Diaz.
E così solo nel Secolo Breve appena trascorso il Messico ha prodotto la prima grande Rivoluzione moderna, archetipo dei sogni di emancipazione sociale di tutto un continente. Ha prodotto l’esplosione artistica dei murales, opera di artisti convinti di portare i musei nelle strade delle città, ma ha prodotto anche telenovelas sfornate con ritmi giapponesi, piene di maliarde encantadoras che inchiodano davanti ai teleschermi milioni di telespettatori.
Poi ha anche stupito il mondo con il subcomandante Marcos, icona di una “rivoluzione impossibile”, quella della prima ribellione contro una globalizzazione che esclude.
Così, persino con le sue dure contraddizioni sociali, il Messico continua a raccontare la creatività, la fede, le paure, le credenze, i colori, la gioia, con il “potere – come sosteneva Andrè Breton – di mantenere aperto un registro inesauribile di sensazioni, dalle più dolci alle più insidiose”.

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Enrico Martino

Enrico Martino
Enrico Martino

Asia, Sri Lanka, Yala National Park, Coccodrillo.
Crocodile, Yala National Park, Sri Lanka, Asia.

Enrico Martino

Istmo di Tehuantepec, Juchitˆn de Juarez. Donna zapoteca. <br />
Istmo di Tehuantepec, Juchitˆn de Juarez. Donna zapoteca.

Enrico Martino

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