Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Convitato di pietra

Molto spesso usciamo a cena con lui, il “commensale di pietra”, i moniti dei maestri del palato, lasciando a casa i nostri gusti e giudizi come fossimo buongustai per procura. Un invito a riappropriarsi del proprio, personale, piacere a tavola… a cominciare dal naso

Convitato vino rosso

Molto spesso usciamo a cena con lui, il ” convitato, commensale di pietra “. Seguiamo i moniti dei maestri del palato, lasciando a casa i nostri gusti e giudizi come fossimo buongustai per procura.
Un invito a riappropriarsi del proprio, personale, piacere a tavola… a cominciare dal naso.

Cosa implica, in tempi come questi, scegliere un posto dove sedersi a mangiare un boccone? Cos’è una sera al ristorante? Un piacere del palato, un dovere sociale o nessuno dei due? A cosa ci guidano le guide?

Disgrazia vuole che viviamo in un mondo in cui mangiare ha due facce. Prima faccia: niente da mangiare. Seconda faccia: troppo da mangiare. Chi non ha niente da mettere sotto i denti non ha granché scelta: digiuna e basta e quando il convento passa qualcosa, ringrazia il convento e ingurgita. I suoi problemi di ristorazione finiscono qui, e non sono poca cosa.

Convitato di pietra: “degustazione”

Convitato

La civiltà degli ingozzati, che siamo noi, non ritiene invece di avere conventi a cui rivolgere ringraziamenti: ha tutto e, come fa chi ha tutto, si lamenta. Dal coro di lagne della gente annoiata dal cibo è nata l’enogastronomia. Essa consiste nel farsi idee asciutte e piatte su ciò che si ha la fortuna di assaggiare e nel comunicare tali riflessioni con tono asciutto e piatto.

Le guide sono un imprescindibile strumento di conoscenza dei segreti di tale disciplina. Così, di degustazione in recensione, si è perso il gusto. Magari non il buon gusto, che si dice sia in ascesa, bensì quella sensazione di piacevolezza che si prova quando si ha appetito e si mastica una cosa buona; piacevolezza che dovrebbe aumentare quando si manda giù il boccone.

Questa gioia non viene più descritta come tale: piuttosto è un dovere conoscere i posti giusti, scegliere i piatti giusti e bere i vini giusti. Questi speciosi obblighi vengono chiamati “degustazione”.

Uno non è più portato a farsi un’idea sua di ciò che gli viene servito, perché non vuole contraddire i maestri del palato, perché non vuole sentirsi ignorante, perché non vuole sembrare una scimmia incapace di distinguere una banana griffata da una banana qualunque, poiché si presume che la banana griffata sia la banana migliore.

Convitato di pietra, va’ dove ti porta il naso

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Il talento culinario non è indubitabile: anch’esso è passibile di critica e opinabile, come tutte le altre doti artistiche. Cioè un cuoco può fare dei secondi eccelsi e dei dolci così così; può piacere a me sì e a te no o viceversa.
E il critico che l’ha segnalato poteva avere le papille gustative in ferie, quel giorno, o essere stato influenzato da congiunzioni astrali positive o negative.

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Uno dovrebbe seguire il proprio olfatto, perché dove ci sono cose buone c’è anche un buon odorino. Ma questi sono ormai concetti superati, nell’epoca degli aspiratori atomici e dell’aria condizionata. Il locale trendy è asettico e non è dato sentire il profumo nemmeno di ciò che si è ordinato, né dall’esterno e – incredibile ma vero – nemmeno in sala da pranzo.

Perché la carne di uno potrebbe contaminare il pesce del suo commensale, e ciò è ovviamente improponibile. Gustoso è un aggettivo proibito, sinonimo di volgarità. Il valore di una pietanza risiede nella sua anodina e scondita scultoreità.

Abbasso burro e olio, che sono pieni di grassi: la preferenza ormai va alla “spremuta di Babbasgurzia del Burkina Faso”, dove, grazie alle virtù dimagranti di questa pianta, sono tutti ridotti all’osso e “all’olio di spugna secca”, un condimento ecologico che viene utile anche dopo pranzo per lavare le stoviglie.

Convitato di pietra, la parola e la sostanza
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I ristoranti non si chiamano più semplicemente così. La denominazione del locale a quanto pare contribuisce a dargli sostanza; sarà certamente così, viste le insegne che si vedono in giro.

Così si leggono nomi tipo “Il Tempio della Sacra Polpetta”, “l’Antica Osteria dell’Oro Colante dal 2007”, “La Fulgida Trattoria della Nobile Corona”, la “Trucida Spizzicheria Conte Guidobaldo de’ Ciccisbeis”, “La Cattedrale dello Stracotto”, “l’Accademia del Toast”, il “Luogo Inamidato dello Stoccafisso Lessato”.

Come si fa con questi nomi a farsi un’idea del locale? Sarà caro o a buon mercato? La fame deve mancare, perché chi la porta con sé nei locali definisce da solo la propria pochezza. Si va alla “Mangiatoia del Buzzico” – locale modaiolo – e si fatica ad alzare una forchetta per sbocconcellare un saltimbocca alla burina. Buono? Dipende dal numero di stelle/palle che il posto ha ottenuto sulle guide, dalla pretenziosità dell’arredo e dalla supponenza del personale. L’apparato sviluppa il palato? L’antipatia è una garanzia?

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Nemmeno la presenza della tovaglia è ormai significativa: ci sono locali carissimi che non ritengono di metterla sul tavolo, ci sono posti arredati come il refettorio del “Convento dei Deprivati O.G.M.” (cioè di “Ogni Gioia della Mandibola”) che costano come un viaggio alle Maldive.

Il cameriere gentile è retaggio di altri tempi e altri mondi: si va dal servilismo peloso alla sgarbatezza istituzionale: due atteggiamenti che piacciono agli avventori dei nostri tempi, i quali non si fanno problemi se spendono cento euro per due primi e un secondo, ma non lasciano nemmeno un centesimo di mancia al poveraccio che li serve al tavolo. La mancia è un ricordo di quando due primi e un secondo non costavano cento euro e i clienti erano più educati.

Convitato di pietra, ordinazione sacerdotale
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Altri parametri essenziali sono la carta dei vini, che deve essere più lunga di un poema omerico e il menù, che bisogna sia scritto a mano da un amanuense cistercense clonato a tale scopo. Dalla lettura della carta non è dato intuire, neppure a eccelsi decodificatori di linguaggi criptati né a esegeti biblici, cosa ci potrà mai essere nel piatto.

Più è imperscrutabile il testo, maggiore la gloria del locale. Essendo il ristorante oramai un luogo sacro, ordinare è diventato un rito come al tempio ed effettuare una scelta non è tanto una scelta quanto un atto di fede.

Eccolo infine, il nostro ordine, disposto in un piatto di dimensioni eccessive rispetto al contenuto, che è molto diverso dall’immaginario creato dalla sua descrizione. Cosa potrebbe evincere un poveraccio, leggendo espressioni trionfali tipo “straccettini di piccatina con ratatouille di tuberilli spumeggianti al latte” e “clafoutis di cuoricini di spinaci novelli?” Chissà cosa ci si aspetta.

Poi arriva un mini-spezzatino di vitello con un micron di purè e due foglie di verdura lessa e tutto appare chiaro. Ecco di cosa si trattava. “Stringifili lungosi con ciliegini tenerilli” e “trituncolo di petali di reggianino?”
Spaghetti al pomodoro con grana. “Chiccolini di Carnaroli al pasticcio di Calstelmagno con riduzione?” Riso al formaggio con brodo di dado. Si può essere sicuri che la riduzione non riguarda mai il prezzo.
E il mezzo pomodoro cotto smollato, che sta sempre in un angolo, lo fanno sul momento o lo vendono già attaccato al piatto, visto che mai una volta che te lo risparmino?

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Convitato di pietra, qualche domanda
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Rispolveriamo domande che hanno la loro rilevanza. Dobbiamo iniziare a farcele, per riappropriarci dei nostri gusti e dei nostri giudizi.

Prima domanda: quanto ci vuole a preparare le pietanze che sto consumando? Il criterio è fondamentale, perché dice tutto sulla bravura dello chef e sull’impegno profuso nella preparazione, perché l’elaborazione non è vero che non è un valore e se voglio una cosa semplice mi mangio una pastina e mezza crescenza a casa mia, non un “affogatino con minimuzzi di stelline” e “mousse di spremuta di pannina” al ristorante “Brodando e cucchiaiando”.

Seconda domanda: il prezzo è giustificato? Ovvero: mi stanno truffando con una bistecchina qualunque o c’è un motivo per cui sono tanto esosi?
Terza domanda: in questo ristorante si viene per guardare e per essere guardati o per qualche motivo legato al buon cibo?
Quarta domanda: ci tornerei con mia suocera che desidero avvelenare da anni? Oppure: lo segnalerei al collega che segretamente detesto? O infine: ci porterei l’amore della mia vita?
Quinta domanda: quando esco sono contento perché finalmente è finita o perché l’esperienza è stata soddisfacente?

Convitato di pietra, papille edipiche
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Nella storia di Don Giovanni, leggendario amatore descritto da Molière e da Mozart, compare il fantasma del temuto e severissimo padre, che viene chiamato Convitato, ovvero commensale, di pietra.
Costui è la personificazione del genitore intransigente, del maestro che, anche quando è assente o addirittura defunto, influenza il nostro giudizio al punto da cambiarlo, perché tutto si fa per ottenere la sua approvazione, anche tradire sé stessi.

Usciamo troppo spesso a cena con il “ convitato di pietra ”, il quale, impedendoci con i suoi gusti monolitici di apprezzare i sapori e di farci un’idea personale di ciò che ci piace, ci ha fatto diventare buongustai per procura. Sicché, questo prevaricatore dalla testa di marmo, bisogna che impariamo a lasciarlo a casa.

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