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Nowhere, colonna sonora di un lungo viaggio in auto

Intervista a Lorenzo Materazzo, pianista e musicologo abruzzese che presenta il suo primo disco “Nowhere”, in nessun luogo. “È proprio lì che si trova la mia musica”, dice Lorenzo. Nasce e resta nella mente, nella fusione di due mondi: musica classica ed elettronica. Dieci tracce in cui è raccolta tutta la sua vita. Scopriamola

Lorenzo Materazzo
Lorenzo Materazzo

Dovete affrontare un lungo viaggio in auto e non sapete che musica ascoltare? Noi di Mondointasca vi consigliamo Nowhere. Il primo disco da solista del pianista e musicologo abruzzese Lorenzo Materazzo, dopo l’esperienza con gli Ex. Wave, è il disco ideale, a detta dello stesso autore, da ascoltare mentre si è alla guida. Due sole le precauzioni da prendere: evitare di portarlo con sé se si prevede traffico intenso e caotico, quasi sempre fonte di stress, o in caso di tragitti brevi. Per apprezzare Nowhere, fusione di musica classica ed elettronica, due sono infatti i requisiti indispensabili: essere rilassati alla guida e affrontare un lungo viaggio. “In 10 tracce e poco più di 40 minuti di musica – racconta Lorenzo Materazzo –  c’è la mia vita intera, dalla formazione classica del Conservatorio all’esperienza elettronica degli ultimi anni con il duo Ex.Wave. E nonostante sia un disco che dura pochi minuti va sentito e risentito più volte: non è un disco immediato. Per questo consiglio di ascoltarlo quando si ha in programma un lungo viaggio in auto oppure in cuffia con lo stereo, sdraiati sul divano come si faceva negli anni ‘70”. 

Un lungo viaggio come quello che il nostro artista affronta settimanalmente per andare da Teramo, dove abita e insegna pianoforte all’I.M.P. “G.Braga” e informatica musicale alla Facoltà di Scienze della Comunicazione a Lecce, dove da qualche mese lavora al conservatorio “Tito Schipa”. “Con la docenza al Conservatorio di Lecce –  racconta Materazzo – prenderò spesso la macchina e farò mille chilometri alla settimana, ne avrò di tempo per pensare e magari scrivere un nuovo disco”.

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Parliamo intanto del tuo primo album da solista. Perché l’hai intitolato Nowhere?
Ho scelto Nowhere, che significa “in nessun luogo”, come titolo dell’album perché è proprio lì che si trova la mia musica, in nessun luogo: nasce e resta nella mente, in un momento di crisi dell’arte che rispecchia quello che stiamo vivendo negli ultimi anni.

Questo disco ti è costato molta fatica?
Questo disco è il frutto di due anni di lavoro e mi è costato molta fatica soprattutto perché, essendo da solo, ho dovuto pensare a tutto io. Non ho avuto invece problemi a comporre, mixare, suonare e registrare perché per mia fortuna ho un mio studio personale (lo Studio Pianistico Materazzo a Teramo, ndr). Occuparmi dell’arrangiamento è stato però molto difficile. Il vantaggio di suonare da soli, e non in una band, è che mi sono potuto organizzare meglio.

Nowhere, colonna sonora di un lungo viaggio in auto

Come sei riuscito a unire due mondi musicali così diversi?
La chiave è guardare la musica senza troppi paletti. Vorrei essere considerato come un musicista del Settecento perché in quel periodo chi suonava non si precludeva nulla, sapeva fare tutto. Se guardi la musica in questa prospettiva, ovvero come un unico linguaggio, questa diversità non la vedi più. Con l’elettronica si può sperimentare il suono. In questo disco ho messo i miei due mondi. Tante volte separati.

 

Del tuo disco mi ha colpito molto anche la copertina. Cosa rappresenta?
Sei la prima a chiedermelo e la cosa, non ti nascondo, mi fa molto piacere perché non è un’immagine scelta a caso. Si tratta infatti di una foto di tanti anni fa, che ho scattato durante un viaggio in Sicilia. Quando l’ho rivista ho pensato che quella collina vicino Noto, fotografata dal finestrino dell’auto rappresentava bene quell’idea di desolazione che volevo esprimere con Nowhere. Ovviamente l’immagine che si vede oggi, è frutto di una rielaborazione al computer.

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Chi vorresti che ascoltasse Nowhere?
Quando la musica è di qualità, non vedo un ascoltatore ideale. Mi piacerebbe che lo ascoltassero i giovani dai 30 anni in su, che sono abituati a una musica più commerciale.

 

I tuoi allievi cosa pensano del disco?
Lo vedono attuale come sound e mi chiedono cosa m’ispiri. Giovanni Allievi e Ludovico Einaudi hanno aperto la strada. Io mi sono spinto più in là e spero che questo genere attecchisca.

Come sei come docente?
Sono buono fino a un certo punto, poi divento pignolo. I giovani d’oggi hanno l’agenda piena d’impegni e spesso la musica è la materia scolastica a cui si dà meno importanza. Con i bambini piccoli non sono duro. Se c’è talento divento però molto pignolo. I docenti di musica superficiali li fanno giocare e basta.

(27/02/2014)

Il One World Trade Center il 30 luglio 2013
Il One World Trade Center il 30 luglio 2013

Hai detto che in queste dieci tracce c’è tutta la tua vita.
Sì, assolutamente. Questo disco è una sorta di arrivo e partenza. Con questo album mi sono cimentato in un campo diverso da quello che avevo fatto finora, ma sono riuscito a fare quello che mi piace. Questo poi è il mio disco più sincero, in cui non mi sono piegato a logiche commerciali.

 

C’è un brano a cui sei più legato?
Sicuramente a How to destroy the World, il brano più lungo dell’album (dura 7 minuti) e più complesso, perché è stato un brano di rottura col passato, in cui ho lavorato sui suoni ed è il pezzo meno commerciale dell’album. Ho costruito ed elaborato i suoni per ricreare il rumore della guerra, quella che una sera veniva ricordata in televisione mentre componevo: l’11 settembre 2001. Il pianoforte poi è molto riverberato, come se suonasse in uno spazio ampio, lo spazio del World Trade Center (nella foto come è oggi, ndr) dove oggi non ci sono più le grandi Torri. Per far sì che il piano suonasse come se si trovasse lì ho ricreato uno spazio artificiale al computer. I rumori di sottofondo sono voci vere e suoni registrati durante quell’interminabile giorno di tragedia. Nel finale ho immaginato di poter tornare indietro e cancellare tutto, riavvolgendo il nastro con effetti di reverse. Per me lavorare su suoni già esistenti ha rappresentato una novità. 

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L’album si chiude con la versione classica solo al pianoforte del brano in versione elettronica che dà il nome all’album. Immagino che la scelta non sia casuale?
È stata una scelta mirata. Si chiude il cerchio e si torna alle origini.

 

Come mai un brano dedicato al rastrellamento del Velodromo d’inverno a Parigi?
Questo brano l’ho composto quasi di getto in un momento d’ispirazione dopo aver visto, con mia moglie, il film La Chiave di Sara. Dopo averlo sentito, sempre lei mi ha spinto a perfezionarlo e a inserirlo nel disco. Per questo mi è sembrato giusto dedicarglielo.

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