Martedì 7 Maggio 2024 - Anno XXII

A Milano “The Jean-Michel Basquiat Show”

Dopo Andy Warhol e Keith Haring, alla Triennale apre la mostra dedicata al famoso artista newyorkese, straordinaria “stella cadente” degli anni Ottanta

Jean Michel Basquiat, 1984 (Foto:Bobby Grossman)
Jean Michel Basquiat, 1984 (Foto:Bobby Grossman)

Fino al 28 gennaio 2007 la Triennale di Milano ospita ottanta dipinti e trenta disegni, firmati Jean-Michel Basquiat, artista di colore, bello e maledetto, che morì prematuramente per overdose, non ancora ventottenne, il 12 agosto 1988.
Ancora, dunque, una mostra che ci riporta a New York in pieni anni Ottanta e che segue quelle degli ultimi due anni dedicate a Andy Warhol e Keith Haring. Tre personalità che in modo diverso ma complementare esprimono un nuovo modo di concepire l’arte. Così, dopo le immagini-icona che maliziosamente Warhol realizza sfruttando il diffondersi del consumismo, e dopo gli omini e le figure che Hearing, in modo colorato ed essenziale, usa per contrapporre l’armonia alla disperazione, quest’anno è la volta dei segni e dei colori violenti con cui Basquiat urla la sua rabbia, la sua ossessione, la sua inquietudine.

Fallen Angel, 1981
Fallen Angel, 1981

Jean-Michel abbandona la famiglia a soli 17 anni senza neanche finire la scuola superiore. Lui, nato a Brooklyn nel 1960 da una famiglia borghese – padre haitiano e madre portoricana, che ha cercato sempre di assecondare la passione del figlio per l’arte-  preferisce gli appartamenti occupati di Lower Manhattan. Qui  avrà inizio la sua carriera di graffitista e “Samo” sarà il nome scelto per firmare le proprie opere: frasi ad effetto, aforismi e brevi poesie.
Nel giro di poco, dai muri di DownTown la sua arte passerà alle gallerie di Soho. Il “personaggio” Basquiat sarà individuato dal mercato dell’arte: è bello, maledetto, genio sregolato, ambizioso, in cerca di fama, ha talento ed energia. E il gioco è fatto. “È cool avere vent’anni ed essere arrivati mentre centinaia di giovani artisti vanno lasciando le diapositive dei loro lavori qua e là […] ma la crassa volubilità del mercato degli speculatori può avere un effetto deleterio sulla futura carriera dell’artista […]. Qui non si tratta più di collezionare arte, ma di comprare individui. Non è un pezzo firmato Samo. È un pezzo di Samo”. Così scriveva nel 1981 su Artforum Renè Ricard, poeta e critico, già vicino ad Andy Warhol e alla Factory, ben interpretando il destino del giovane Jean-Michel.

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Agony of the Feet, 1982
Agony of the Feet, 1982

“Basquiat – scrive il curatore Gianni Mercurio –  è stato fatto a pezzi, non solo a causa della sua tendenza autodistruttiva, ma anche dai nascenti meccanismi del mercato dell’arte degli anni Ottanta. In pochi mesi è passato dal nulla a maneggiare quantità esorbitanti di dollari, trasformato in merce di scambio su una piazza sempre più gonfia di disponibilità economiche”. Come una stella cadente, la vita del giovane Basquiat d’improvviso si accende, brilla, e altrettanto velocemente si spegne e si esaurisce lasciandosi dietro una lunga scia luminosa, un segno lasciato nel firmamento. Così anche la sua attività artistica, che si sviluppa nell’arco di una sola decade dal 1978 al 1988. Alla firma iniziale Samo si sostituisce una maschera nera, un teschio, che contraddistinguerà i suoi lavori, perché capace di riassumere le suggestioni che più intensamente lo animano. La magia della cultura africana da una parte e la violenza metropolitana dall’altra.
Il percorso della mostra riesce bene a ripercorrere la trasformazione della sua arte, grazie anche a una vasta documentazione fotografica e una sezione video, con molti materiali inediti. Le immagini tribali e i segni infantili ambiscono a uno stile sempre più alto, divenendo scarabocchi alla Twombly, collage alla Rauschemberg, volti deformati alla De Kooning, artisti che lui cita esplicitamente come fonte di ispirazione accanto a Picasso e, primo fra tutti, Dubuffet.

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