Lunedì 29 Aprile 2024 - Anno XXII

Cronaca di una viaggiatrice solitaria

La storia fuori dal comune di Kira Salak. Da giovanissima ha iniziato a viaggiare, in solitaria, nei luoghi più remoti del mondo. Come la Papua Nuova Guinea. Un’esperienza unica, narrata nel suo libro “Cronaca di una viaggiatrice solitaria”, pubblicato da National Geographic Society, in Italia editato da Fbe Edizioni

Cronaca di una viaggiatrice solitaria

 

“Gli scopi e la natura non sono mai chiaramente rivelati. Il comportamento umano è fatto da una serie di slanci la cui direzione, si percepisce, è inevitabile”.

Patrick White

 

Da dove veniamo?  Che cosa siamo?  Dove andiamo?
Solo qualche anno dopo essere fuggita dal Mozambico sono partita alla volta della Papua Nuova Guinea. Questo viaggio è iniziato in paradiso. A Tahiti. Eravamo a una settimana dall’inizio dei test nucleari francesi sull’atollo di Mururoa, una settimana prima che le sommosse dei ribelli e i saccheggi dilaniassero la capitale tahitiana, Papeete. Non vidi nulla di tutto ciò. Prima di allora non ero mai stata in un luogo più pacifico. Soggiornavo in un ostello della gioventù e non molto tempo dopo un gruppo di noi, bacato, invase lo Hyatt Regency Hotel, occupò il ristorante della terrazza assicurandosi i posti a sedere a picco sul mare. Volevamo godere di una vista migliore. Volevamo birra, noccioline e aperitivi a otto dollari a botta, e la sensazione di rasentare il più possibile la perfezione.
Quella notte fummo molto vicini. Uno spettacolare tramonto sull’oceano Pacifico meridionale addolcì i nostri sforzi. Onde dorate, un cielo infuocato con ogni possibile sfumatura immaginabile di rosso.

Guardammo esterrefatti a ovest senza mai staccare gli occhi da quel panorama mentre parlavamo con pigrizia del più e del meno; perché gli americani non viaggiano mai, perché, invece, i tedeschi viaggiano sempre? Non era Marlon Brando che possedeva un’isola da queste parti? Non era sua figlia che si era suicidata?
Tutti fissammo il britannico con i capelli rasta che fece quest’ultima domanda rimproverandolo con il nostro sguardo: argomento fuori luogo.
Non potevamo tollerare domande di quel genere. Non in quel momento. Non davanti a una perfezione di quel tipo.
A Tahiti ogni giorno si concludeva con la perfezione emotiva, come se si trattasse sempre dell’ultimo giorno prima della fine del mondo. Era tutta un’ostentazione di bellezza. L’aria profumava di tiare e di germogli arancioni come se la terra si fosse spruzzata addosso tanto profumo; passeggiare per strada significava calpestare tappeti di fiori come fossero foglie in autunno. Mi chiesi distrattamente quando sarei stata catapultata nuovamente sulla Terra, come una comune mortale. Troppo presto, sicuramente. Eppure non ero preparata alla scossa di rinsavimento.

Essendo la più calma del gruppo, mi sorpresi quando gli altri si unirono a me nel silenzio. A ovest, la notte stava subentrando, creando una specie di profilo ai colori e smorzando lentamente la scena. Malva.
Porpora scuro. Lentamente, molto lentamente. Il cielo e il mare si univano. Uno spicchio di luna imponeva la sua presenza. Il suono degli insetti.
Una brezza oceanica più fresca. E la notte. Fummo sopraffatti da una specie di delusione. Le birre e gli aperitivi diventarono troppo costosi per noi. Lo Hyatt Regency Hotel troppo soffocante. Contammo le monete spicciole che avevamo, le impilammo sul tavolo e ce ne andammo con grande sollievo per lo staff dell’albergo.
Ci dirigemmo verso l’ostello della gioventù a bordo di un vecchio furgone. Mi sentivo come uno dei tupapau di Haiti, i fantasmi che secondo la popolazione locale vagavano all’infinito e potevano essere convinti a riposarsi soltanto in prossimità di una lampada al cherosene nella notte. Ero già in ansia e volevo partire da Tahiti. Inspiegabilmente, avevo bisogno di esser altrove. Questa volta mi ero lasciata tanto alle spalle.

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Cronaca di una viaggiatrice solitaria

La scuola di perfezionamento, l’insegnamento nella scuola elementare, la mia opportunità di risparmio. Un ragazzo che mi amava e che avrei potuto concedere a me stessa di ricambiare con il mio amore.
Le stelle sopra di noi a causa della velocità del furgone sembravano immobili. Il vento sferzava facendo sventolare all’indietro i capelli e i vestiti sui nostri corpi. Tahiti e la sua gente apparivano dentro squarci di luce: un vecchio signore che camminava sotto un lampione, un pallido oceano, una madre sul portico davanti casa mentre chiama suo figlio.
Guardavo i giovani intorno a me. La maggior parte di loro erano stati a Tahiti per mesi, gloriandosi come gli ammutinati di Fletcher Christian, di quanto fossero riusciti a evitare il resto del mondo e le sue responsabilità. Vivano, proprio come me, con quello che c’era in uno zaino.

Trascorrevano le loro notti a farsi fare tatuaggi polinesiani e a bere birra intorno ai falò sulla sabbia. Una cricca di vagabondi allegri. Ero sempre titubante a unirmi a loro, mi sedevo ai margini del cerchio di luce come uno dei Morlocks di H. G. Wells. Mi piaceva guardarli, chiedermi cosa accadeva quando il paradiso diventava ufficialmente la casa di qualcuno. A quel punto le fughe sarebbero finite? Si viveva una vita incantata?
In quanto questa vita, la vita di queste persone felici sembrava davvero incantata.
Avevo scoperto che i luoghi più paradisiaci al mondo mi distraevano soltanto per pochi giorni benedetti. Era come vivere un’esperienza extra-corporale. Mi allontanavo dal mio corpo e dal mio passato, e vivevo nelle acque turchesi e sulle sabbie bianche fingendo che non sarei dovuta ritornare da nessuna parte. Riposo e relax, così lo chiamano. Io, invece, lo chiamo speranza.

Il mio artista preferito, Paul Gauguin, non è mai tornato a casa. Aveva deciso di esiliarsi nella Polinesia francese. Ironia della sorte, il Pacifico meridionale lo ha quasi ucciso con la sua bellezza: non era interessata ad assecondare i malumori offrendo notti spente, giorni grigi o notti fredde. Spesso sull’orlo del suicidio, Gauguin fu costretto a dare il benvenuto alla beffa quotidiana di una terra florida e lussureggiante in un susseguirsi di cicli di rinascita. Un tale paradiso, allora come ora, che ci si poteva porre soltanto le domande più importanti e cruciali. Gauguin se le è fatte in uno dei suoi capolavori, un dipinto che, se gli fosse riuscito il tentativo di suicidio, sarebbe stato l’ultimo:

D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Nell’ostello della gioventù quella notte Coco mi stava dicendo quanto fossero belli i corpi delle giovani donne. «Così morbidi» disse «Così sodi».Mi spalmò l’olio di cocco sulla schiena, poi scaldò le mani su una lampada di kerosene. Mi disse che poteva fare massaggi tahitiani per tutto il giorno alle giovani donne come me. Gli credevo in quanto era un uomo solitario. Sua moglie, negli scorsi due anni, aveva vissuto negli Stati Uniti e lui aveva lo sguardo confuso e cotto di un uomo di mezza età che aveva tenuto compagnia ai fantasmi.

Coco era proprietario dell’ostello e divideva il suo tempo tra il gestire l’ostello e sedurre le clienti donne. Parlava apertamente di alcune delle sue amiche “del passato”: una giovane svizzera che aveva assunto per far la spola da e per l’aeroporto, una danese, un certo numero di ragazze
francesi. Mai un’americana annunciò: come se io già fossi iscritta nella lista. Disse che gli piacevano le straniere in virtù della grande varietà e sosteneva di poter avere reazioni diverse da ciascuna di loro quando le massaggiava.

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«E le americane come sono?» chiesi.
«Tese». Scoppiai a ridere. «Io sono tesa?»
«Hai tutta la schiena irrigidita. Non ti piace che ti tocchi quaggiù».
Sfiorò con il dorso della mano le cosce.
«Il mio ragazzo mi toccava là sempre».

«Uomo fortunato» disse in francese. «E dov’è ora questo ragazzo?»
Guardai di nuovo James, il suo sorriso gentile e determinato. Il gioco del desiderio che accendeva i suoi occhi. «Au revoir». Ho tagliato l’aria per esplicitare il pensiero.
«Arrivederci».

Coco fece un verso. « Non così fortunato, n’est-ce pas, vero?» Cambiai argomento. Coco si limitava a lanciare messaggi? Nient’altro?
Volevo che lui sapesse che non ero a caccia di qualcosa in più. Soltanto massaggi. Mi raccontò di nuovo della sua “amica” svizzera.
Sarebbe rientrata tardi dall’aeroporto e non riusciva ad andare a letto senza uno dei suoi massaggi. Erano fantastici.
«Un mago» dissi in francese ghignando, e lui riprese a massaggiarmi versando dell’altro olio di cocco. Mentre la sua mano risaliva sulla coscia, precisai «Solo un massaggio».
Ridacchiò. «Voi americani».

Guardai fuori dalla finestra della stanza di Coco. Eravamo vicino alla spiaggia e il suono della risacca, sebbene io sentissi di poter essere ovunque, mi ricordò dove ci trovavamo. Talvolta, soprattutto la notte, tutti i luoghi si confondono e mi disoriento. C’erano le volte in cui mi facevo
cogliere dal panico e mi assicuravo che le porte della mia stanza fossero chiuse a chiave e dormivo con la luce accesa. Oppure, se mi trovavo in un ostello in un Paese da qualche parte, mi rotolavo su me stessa per riuscire a guardare le sagome addormentate degli altri. Ascoltavo il loro respiro, i ritmi tranquilli, in attesa che l’aria avesse di nuovo un cattivo odore come doveva. Come Zanzibar, forse, spessa, stantia e dolce. Come il Nepal, Bangladesh. Il rumore di un ventilatore sulla testa, forse. Oppure la pioggia che filtra attraverso gli alberi. Come se il mondo si stesse facendo sentire per dirmi dove mi trovavo.

Cronaca di una viaggiatrice solitaria

Questa volta fu Coco a riportarmi indietro. Quando si alzò per preparare dell’altro olio di cocco per il mio massaggio lo osservai. Non era grande; era un colosso, un gigante. Con le braccia spesse e lunghe. I pesanti zigomi polinesiani. Tutto il corpo fremeva quando lui si versava l’olio tra le dita e le strofinava tenendole sopra una piccola lanterna al kerosene.
Questa era la sua specialità, mi spiegò. Questi massaggi, appunto. Aveva imparato da suo padre che a sua volta aveva imparato dal suo. Era un’arte. Un dono. Imparare a muovere le mani correttamente. Dosare ogni movimento come se il corpo fosse una tela da dipingere.
Coco versò dell’altro olio di cocco su di me, le sue mani erano nuovamente bollenti e impastavano la mia pelle. Il mio sguardo si posò sull’ombra tremolante sulla tenda della finestra. La risacca avanzò e poi si ritirò nel silenzio della stanza. Coco diventò un fantasma: sentivo soltanto il movimento delle sue mani che rotolavano e premevano. Qualsiasi cosa stesse facendo era perfetta. Una perfezione proibita. Una perfezione fantastica.

Mi chiese quanto tempo contavo di fermarmi a Tahiti.
«Non tanto» dissi io. «Questa è soltanto una tappa intermedia. Sono diretta in Papua Nuova Guinea».
«Ci vai per vacanza?»
Sentii la pressione delle sue dita sulle cosce. «No» risposi.
«Perché ci vai?»
«Non lo so ancora».
Fece un verso di disappunto. «So che non è sicuro».
Mi voltai e lo guardai. «Sì. Nessun luogo lo è. Nessun luogo su questa Terra».
Mi girò. «Qui è sicuro».
Non ero convinta di questo. Non mi sentivo al sicuro, anche all’interno delle sue quattro mura, con le sue mani vigorose sul mio corpo.
Le mani di Coco si mossero su per le spalle, per massaggiarmi la nuca.
«Hai il collo tutto rigido».
«Lo so». Spinse con forza sui muscoli tesi. Feci una smorfia di dolore e incominciai a protestare.
«Schhh…» mi fece. Lo disse dolcemente sfumando il suono, lavorando sugli omeri, sulla mia schiena. Di nuovo le sue dita scorsero giù sulle cosce. Mi voltai, nervosa.
«Penso che tu debba smettere».

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Lui mi rivolse l’attenzione. «Ti fa stare bene, intendo dire quello che sto facendo?»
Distolsi lo sguardo.
Appoggiò una mano sulla gamba e mi disse di guardare cosa stava facendo. Le dita si mossero sulla mia pelle con un unico movimento deciso.
«Il massaggio tahitiano è speciale. Ha a che fare con il tatto».
Sospirai e chiusi gli occhi. Coco iniziò a illustrarmi la sua teoria su di me. Disse che non consentivo a tutti di toccarmi. Le sue dita scorrevano sulla mia schiena. Mi disse che probabilmente non mi ero mai innamorata.
Fuori, gli altri “viaggiatori” con zainetto dell’ostello erano riuniti intorno a un falò sulla sabbia e li sentivo ridere.
«Penso di metterti paura» mi disse.
Non mi era venuto in mente che potessi temere qualcosa.

«Penso che tu abbia paura di me», disse, «perché ti sto toccando in questo modo. Devo smettere?»
Una parte di me non voleva. Un’altra avrebbe voluto essere “curata” da qualcun altro. Era una sensazione così inconsueta; solitamente viaggiavo per il mondo da sola e me la cavavo da sola. Crescendo, avevo imparato a non contare su nessuno.


Eppure, forse avrei potuto lasciarmi andare, anche se solo per una notte. Anche se era uno sconosciuto, volevo dirgli che il paradiso di Tahiti mi inquietava più del suo tocco. Non mi fidavo di quel suo essere perfetto. Una bellezza libera e benevola di quel genere sicuramente aveva un prezzo. Come pareggiare in moneta questo dono di tramonti e onde e l’odore inebriante dell’hibiscus e del tiare? A cosa dovevo tanta ricchezza senza aver compiuto il minimo sforzo? Mi sembrava di essere sotto l’effetto di qualche sostanza stupefacente. Mi sentivo delusa e pensavo che mi avrebbero portato via tutto nell’arco di un secondo. Non sapevo come approfittarne subito, e non sapevo neanche se me lo meritavo. La mia nudità mi parve coprirmi come un velo. Coco si mise a sedere su un angolo del letto e mi scrutò. Io avevo i brividi e m’infilai la camicia e poi mi alzai. Coco mi osservava con attenzione e sorrideva.
«Tu aspeur» disse. «Hai paura di me».
Sentii altre risate provenire dall’esterno, dal falò. M’incamminai verso la porta e gli dissi che dovevo andare.
Quell’uomo mi conosceva: «Devi sempre andare, non?».

(17/05/2013)

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