Apparire e stupire
Los Angeles è una città monocolturale, dove il cinema appare come origine e scopo, e impregna la mentalità della gente in un’ossessionante rincorsa all’apparenza. Sui marciapiedi del passeggio si succedono ragazze belle, o finte belle, o finte ragazze, l’importante è sembrare, stupire, provocare; perché la prospettiva più ambita resta comunque la celluloide e qui, dove tutto sembra a portata di mano, non si sa mai. Città e cinema si travasano continuamente. In un luogo sostanzialmente privo di monumenti, sono i film a fare storia. Sunset boulevard è il luogo dove la Pretty Woman dell’esordio si offre alla clientela. Rodeo drive è la via dello shopping della stessa Julia Roberts dopo la cura. Cura avvenuta proprio lì vicino, al Regent Beverly Hills hotel, davanti al quale una Rolls Royce sempre parcheggiata anticipa lo status della clientela. Il municipio di Los Angeles, un tozzo grattacielo anni Trenta, è noto per le arrampicate di King Kong, la stazione ferroviaria di Union square è stata il set di Casablanca, nelle tonde torri di cristallo del Westin Bonaventure hotel Arnold Schwarzenegger si è impegnato contro gli attacchi aerei di True lies. Poi Schwarzenegger è diventato il Formigoni (oggi, il Maroni) della California, con un travaso tra cinema e politica che conferma la commistione tra celluloide e vita reale.
“By car?”, in macchina?, è la risposta automatica a qualunque richiesta d’indicazioni. Se si è a piedi, nessuno ne dà: impossibile. Los Angeles è condannata all’automobile più di ogni altra città al mondo: 12 milioni di auto per 16 milioni di abitanti. La sua estensione è sterminata, i mezzi pubblici fanno quello che possono, la metropolitana è insufficiente. A Los Angeles, più che altrove, viene da chiedersi quanto l’urbanistica sia figlia dei trasporti: come le casette vittoriane nelle periferie di Londra sono la conseguenza della metropolitana più antica del mondo, così qui l’automobile ha disegnato sgraziate autostrade urbane, lunghe decine di chilometri. Ci sono 26 autostrade che squarciano la città con tagli netti e larghi (anche otto corsie per parte) annodandosi in sovrumani svincoli di cemento. Camminando, può persino capitare di trovarsi involontariamente a piedi su un’autostrada, tanto queste sono intessute con l’abitato. O di trovarsi a sovrastare la propria destinazione, senza poterla raggiungere, perché la città è fatta di colline e di ondulazioni, e i nastri d’asfalto passano, semplicemente, sopra le case. Il 92% delle vetture porta un unico passeggero (in una città pericolosa l’auto è protettiva); così le autostrade riservano una corsia a tutti i mezzi con più di una persona a bordo. Il cielo è punteggiato di aerei che vanno e che vengono nei 22 aeroporti della città, di cui cinque commerciali; nel più importante, il Lax, atterraggi e decolli si susseguono ogni 18 secondi. Tutto dà l’impressione di un gigantismo incontrollabile. Qui si intuisce il peggio dell’America.
Maria “mojada”, nicaragueña
La povertà serpeggia tra tutte le comunità di immigrati, quelli che, spinti dalla ricerca di un sogno, si ritrovano a fare i conti con le necessità della vita. La storia di Maria Josè li rappresenta. Maria, aspetto mite, ha cinquant’anni ma ne dimostra sessanta. Nel 1991 è emigrata dal Nicaragua, “mojada” (letteralmente: bagnata), cioè illegale. Là c’erano ancora i bagliori della guerra e a San Francisco lei contava su una “media hermana”, una sorellastra che si è volatilizzata appena Maria ha messo piede negli Stati Uniti. Si è fermata a Los Angeles perché, semplicemente, era già lì. Un viaggio costoso e avventuroso; all’ultimo confine, trenta persone distese nel retro di un furgone, una sopra l’altra, gli uomini sotto e le donne sopra. “Sulle montagne siamo stati anche in ottanta, nelle stesse condizioni. E nel deserto uno di noi è morto. E’ normale che, in questi viaggi, qualcuno muoia o si perda, soprattutto nel deserto, dove molti tratti si fanno a piedi”.
Le contraddizioni di una città ricca
Ricchezza e povertà a Los Angeles si confrontano in contraddizioni forti che si materializzano nella pericolosità urbana e nel diffuso razzismo nei confronti delle comunità di colore e di quelle ispaniche (lo spagnolo è la seconda lingua). Beverly Hills, il più famoso tra i “quartieri” ricchi, sembra più un’area privata che una città, dove gli autobus hanno divieto d’ingresso, le case sono protette da guardie armate, e dove non esistono né ospedali né cimiteri, perché la malattia e la morte qui non devono albergare: come in un film. Una villa da un milione di dollari è da indigente; i prezzi qui vanno dai 20-30 milioni in su. Gli alberi sono di un unico tipo, strada per strada (palme, eucaliptus, ulivi, pini) per sottolineare l’eccellenza del rigore stilistico; i cavi elettrici sono sotterranei per non inquinare la vista. Le auto sono in netta prevalenza europee, Bmw, Ferrari, Maserati, Porsche, Mercedes, gli abiti sono italiani. Rodeo drive è un susseguirsi di insegne: Versace, Bulgari, Ferrè, Zegna, Damiani, Gucci, Dolce & Gabbana, Max Mara, Tod’s, Ferragamo. Il successo del “made in Italy” è un’onda così energica da trascinare anche nomi meno blasonati: Tallarico, Vacca, Bernini. Aggirandosi in questa via sempre tirata a lucido viene da pensare allo strano destino dell’Italia, che esporta in parallelo abiti tra i più belli del mondo e turisti in canottiera e infradito.
Business is business; più che altrove
Cent’anni fa, quando i trasporti erano primitivi, l’accesso alle materie prime era essenziale per lo sviluppo di un’industria. A Hollywood lo si capì proprio agli inizi del cinema, nel 1912, e da allora le radici si sono ramificate, tenacissime. Non solo il cinema è oggi l’industria più redditizia – insieme a quella aerospaziale e al turismo – ma ha generato una nuova industria, derivata ma autonoma, che è “l’industria dell’industria del cinema”. Spieghiamoci meglio: l’industria del cinema è la produzione di film, telefilm e affini; l’indotto dell’industria del cinema sono tutti i servizi – società specializzate in ricostruzioni, illuminazioni, impianti, logistica ecc. – che la alimentano dall’esterno e ne dipendono; “l’industria dell’industria” del cinema è quel comparto economico che sfrutta l’immagine, la storia e la planetaria diffusione del cinema per attirare milioni di turisti in parchi divertimento (il più famoso è Disneyland) in locali, centri commerciali. Un po’ come la famiglia reale inglese, che, grazie al marketing, è un’impresa che vale ricavi immensi (cartoline, tazze da tè, libri, poster, posacenere…). Il cinema pervade tutto, negozi, souvenir, locali a tema. Davanti al monumento più antico, il Teatro cinese di Hollywood boulevard, Marylin Monroe, l’Uomo ragno, Charlot, Cat Woman in carne e ossa posano (un dollaro) per le foto con i turisti: come i centurioni al Colosseo o i ballerini di tango a Buenos Aires. Tutto il mondo è paese.
Quartieri dell’effimero
È del tutto normale imbattersi in riprese cinematografiche in città, di giorno e di notte. Los Angeles è la grande quinta di un teatro quotidiano. Downtown, l’area dei grattacieli e della finanza, alla fine della settimana si svuota come tutte le City del mondo, e si trasforma in uno studio del cinema, dove la architetture rilucenti di banche e di multinazionali diventano sfondi reali. Gli sfondi artificiali sono altrove, nei grandi agglomerati dell’industria cinematografica nei cui esterni sorgono ricostruzioni di ogni epoca e stile. Alcuni sono visitabili, come gli Studios della Universal, una delle più potenti case di produzione: un trenino accompagna tra villaggi texani, paesaggi messicani, strade parigine, villette inglesi. Simulazioni di legno e cartapesta che continuano a ripetere le proprie immagini, pellicola dopo pellicola, come delle eterne comparse. Altre sono veri monumenti, intoccabili: come la casa di Psycho, che senza i brividi di Hitchcock appare tranquilla e inoffensiva.
Los Angeles sembra nata per il cinema, come la tedesca valle della Rurh, grazie al carbone, è stata il più grande bacino naturale della siderurgia.
A Los Angeles piove 20 giorni all’anno, la luce è forte, il sole caldo, il tramonto è dorato, il clima è secco. Tutto intorno, l’oceano, le montagne, il deserto offrono varietà allo sguardo: luce e paesaggio sono le principali materie prime del cinema, come il carbone lo è per l’acciaio.
Sudore e Dollari
A Los Angeles Maria fa la lavapiatti in un ristorante italiano di Downtown dove un’aragosta costa 100 dollari, lavora fino alle tre di notte e torna a casa in bus. Il giorno libero fa le pulizie in una casa di Beverly Hills, a due ore di distanza. Sedici anni fa, prima ancora di essere in regola, ha avuto una figlia, con la quale vive, che ora frequenta il liceo e vuol fare l’avvocato. A Managua ha altri due figli, una laureata in lingue, uno in amministrazione d’impresa: “Aveva un lavoro ben pagato, era funzionario di banca” racconta di quest’ultimo. “Pagato quanto?”, “Duecento dollari”, in un Paese dove il salario medio è tra i 50 e i 60. L’anno scorso il figlio ha voluto raggiungerla negli Stati Uniti. Dei 10mila dollari del passaggio (illegale) duemila glieli ha mandati lei; dopo il confine con l’Honduras è stato abbandonato dai suoi strozzini nonostante avesse già pagato. La madre lo ha supplicato: torna indietro, è pericoloso. Lui è andato avanti ed è arrivato a Los Angeles, ma l’unico lavoro possibile, dopo mille ricerche, è stato quello di lavare i piatti nello stesso ristorante della madre. Non ce l’ha fatta. Ora studia inglese, ha già deciso di ripiegare in Nicaragua ma con uno scatto d’orgoglio promette: tornerò legalmente e farò un lavoro al mio livello.
Il “sogno” americano? Sopravvivere
Dopo 17 anni Maria non parla inglese e legge solo le riviste gratuite in spagnolo, che tra articoli sui sogni, sui segni zodiacali e su Abramo Lincoln, sono punteggiate dalle pubblicità di avvocati (“Hai problemi con la giustizia? Vuoi legalizzare il tuo soggiorno? Incidenti d’auto o sul lavoro? Non riesci a pagare le rate della casa?”) e di centri estetici per dimagrire o per curare le unghie incarnite. Anni fa è stata aggredita da una banda di “gringos”, bianchi, solo perché latina. L’ho incontrata sull’autobus, rientrava dalle pulizie. Nel raccontarmi la sua storia si è distratta, ha riconosciuto la sua fermata all’ultimo, e si è precipitata giù. Mi ha salutato con la mano dal marciapiedi.