Quando raggiungemmo Kigali, capitale del Ruanda
, trovammo un paese povero ma non disperato, nessuna traccia delle tragedie alimentari o sanitarie troppo spesso presenti nei paesi africani. Il Ruanda era verde e rigoglioso, non mancava l’acqua, era coltivato fin sulle cime delle colline e sembrava in grado di sfamare tutti i suoi figli. Certo le antiche foreste che ricoprivano il paese fino a pochi decenni prima erano ridotte a qualche triste appezzamento, ma almeno la gente sembrava condurre una vita dignitosa.
I monti Virunga segnano il confine tra Congo e Ruanda e ospitano i parchi che ognuno dei due stati ha istituito sul proprio versante a protezione del gorilla di montagna. Noi eravamo in visita al Parco dei Vulcani, sul versante ruandese. Su quelle montagne la foresta era ancora intatta e lussureggiante e s’arrampicava sulle pendici di cinque vulcani, in parte ancora attivi, svettanti a quattromila metri. Cinque cime sovente avvolte dalle nuvole, minacciose sentinelle di uno degli ultimi paradisi naturali e, soprattutto, degli ultimi esemplari di gorilla ancora liberi in natura.
“Non riusciranno a fare di questa montagna un maledetto giardino zoologico. Eh no!” afferma determinata Sigourney Weaver, nei panni di Dian Fossey in Gorilla nella nebbia. Se per giardino zoologico intendiamo un luogo, più o meno vasto, dove i grandi primati sono rinchiusi a portata degli occhi dei visitatori, credo che lo spettacolare Parco dei Vulcani un rischio simile non l’abbia mai corso, anche se molti viaggiatori vi giungono da ogni parte del mondo. E di certo non era un giardino zoologico quando anch’io ero tra i visitatori insieme ad alcuni compagni di viaggio.
Dian Fossey, la ricercatrice americana che aveva iniziato a studiarli fin dagli anni ’60, aveva installato il suo campo alla base dei vulcani Karisimbi e Visokè, a Kari-soke, e aveva rivelato al mondo i primi risultati delle sue ricerche su di loro: vita, comportamenti e organizzazione sociale. Per incrementare i fondi del progetto, la Fossey da qualche anno aveva abituato alcuni gruppi di gorilla alla presenza degli esseri umani. Poterli osservare in libertà era lo scopo del nostro viaggio.
Salimmo per un’ora attraverso vaste praterie soleggiate, mentre alle nostre spalle si aprivano panorami maestosi, un po’ velati dalla nebbia che andava sfumando man mano che il sole saliva in cielo. L’altitudine si faceva sentire, ma non volevamo sfigurare di fronte all’agilità delle guardie, tutte giovanissime, e quindi nessuno di noi rallentava la marcia. Il fresco del mattino lasciava il posto all’umidità che il sole ormai alto nel cielo faceva evaporare dall’erba e dalle piante impregnate della rugiada della notte. Ci fu un po’ di sollievo quando raggiungemmo l’ombra di un bosco di bambù giganteschi. Buon segno, ci dissero, perché le foglie e i germogli della pianta sono tra i cibi preferiti dai gorilla.
Continuammo a camminare, sempre in salita, entrando nella foresta più fitta e scoscesa, mentre il capofila dei ranger che ci accompagnavano iniziò a chiamare via radio le guardie che erano già sul posto, per chiedere indicazioni sulla direzione da prendere. Il gracchiare continuo dell’apparecchio non appariva di buon auspicio, troppe erano le indicazioni che oltretutto sembravano indecise e confuse, anche se non comprendevo la lingua. Di tanto in tanto una controindicazione giunta via radio ci faceva scendere di qualche decina di metri, per poi risalire un po’ più in là dopo che i ranger avevano faticosamente aperto un altro passaggio nella foresta con i machete.
Una fatica terribile. No, non eravamo proprio in uno zoo! Oltre la terza ora di cammino lo sguardo incerto delle guardie cominciò a preoccuparmi, mentre continuava il fitto colloquio tra loro e quelli che stavano cercando i gorilla senza trovarli. Faticammo ancora mezz’ora, poi improvvisamente un suono sconosciuto, una sorta di brontolio sordo e prolungato, come annoiato, accompagnato da rumori di rami spezzati e fronde calpestate. Erano loro! Un gesto della mano per invitarci al silenzio, un altro per indicarci di rimanere chini, ancora un colpo di machete, poi il ranger spostò l’ultimo ramo di fronte ai nostri occhi. Avevo immaginato un avvistamento a distanza, di vederli da lontano, avevo al collo il binocolo per avvicinarli. Invece erano là, anzi lì, di fronte a me a dieci metri di distanza. Eccoli i terribili e feroci gorilla di montagna, gli epigoni di King Kong!
Quel secondo incontro fu però molto diverso dal primo. Avevo letto la sua storia, avevo più informazioni su di lei e sui gorilla di montagna. Le fatiche della ricerca furono identiche come identiche furono le sensazioni provate, ma tutto nel frattempo era cambiato per me e forse anche per loro. Infatti, nel 1985, due anni e centodiciassette giorni dopo la mia visita al parco dei Vulcani in Ruanda, Dian Fossey era stata uccisa a colpi di machete nel suo centro di ricerca di Kari-soke, in circostanze mai chiarite da allora. Con disumana barbarie era stata spenta la voce dei gorilla tra gli uomini, colei che con tenacia e determinazione li aveva difesi, forse salvandoli dall’estinzione e aveva consentito a me di incontrarli per due volte in libertà.
Osservando un piccolo che camminava su un ramo, tenendosi in precario equilibrio a due liane che pendevano ai suoi fianchi, attento e concentrato nel nuovo esercizio, potevo comprendere da dove scaturiva la forza che spinse Dian a dedicare tutta la sua vita a quelle creature. A studiarle per capire come proteggerle sia dai bracconieri che alimentavano e forse alimentano ancora il macabro traffico di teste e mani mozzate, sia dall’ingordigia dello stesso governo del paese, disponibile a vendere a caro prezzo dei piccoli di gorilla agli zoo che ne facevano richiesta.
E per catturare un piccolo bisogna uccidere la madre e a volte sterminare l’intero gruppo, disposto al sacrificio estremo per difenderlo. Anche da morta Dian rimase tra loro ed ora è sepolta là, nel piccolo cimitero del centro ricerche di Kari-soke che prima di lei aveva accolto solo gorilla. Ora c’è anche lei con Digit/zio Bert, Macho, Kwely e tutti gli altri che non era riuscita a salvare dai bracconieri.
Oggi mentre scrivo penso alle guerre civili e ai massacri avvenuti attorno ai monti Virunga negli anni ’90 che hanno sconvolto il Parco dei Vulcani, spingendovi migliaia di profughi disperati. Come stanno ora i gorilla? In quanti sono rimasti?
Nel giugno del 2005 il presidente del Ruanda incontrò le guardie e i contadini che vivono nei pressi del parco per dare un nome a trenta piccoli gorilla nati da poco. I loro bambini proposero molti nomi e alla fine scelsero. Se sono ancora in vita, da quel giorno i piccoli gorilla si chiamano – in Swahili – Costruttore di pace, Sole, Cooperazione, Vivere insieme, Vittoria. Questa notizia avrebbe fatto la felicità di Dian ed è la prova che la sua lotta forse è stata vittoriosa e mi piace pensare che quei piccoli siano i discendenti dei gorilla che incontrai la prima volta sulle pendici del Visokè. La manifestazione del 2005 si sarebbe dovuta ripetere ogni anno. Non so se questo sia avvenuto, ma certo da allora sono nati altri piccoli e le ricerche e i censimenti degli ultimi anni sembrano confermare che i gorilla sono in aumento, aiutati dall’evidenza che ormai per i paesi che hanno la fortuna di ospitarne gli ultimi esemplari sono diventati una fonte di reddito insostituibile.
E allora coraggio, amici pelosi, siete diventati un business! Non è molto, ma è la sola speranza che avete per sopravvivere.