Lunedì 29 Aprile 2024 - Anno XXII

Nautica

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Rifugiati Tibetani in Ladakh

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a cura della Redazione

Novembre 2007, Ladakh, estremo nord dell’India. Lo sguardo del giovane “Khampa” è rivolto oltre le vette innevate e i ghiacciai dell’Hymalaya. Verso quella casa che non ha mai conosciuto.
Lhasa è pura utopia per questi rifugiati tibetani, nomadi sulle montagne del Ladakh, India settentrionale. Alcuni di loro, nati e cresciuti in esilio, non hanno mai messo piede in Tibet, oltre quelle creste rocciose.
Sono da diversi giorni loro ospite a Poga Sumdo, un piccolo villaggio a 4500 metri d’altitudine, sulla pista che conduce verso il lago Tso Moriri, a una giornata di fuoristrada da Leh, il capoluogo della regione.
Vivo con questa gente, ospite nelle loro case e divido con loro una quotidianità semplice, fatta di lavoro e di dura sopravvivenza. Ma anche di momenti di grande intimità religiosa, come l’ora della “puja” favorisce.
La preghiera buddhista raccoglie tutti, uomini, donne e bambini, avvolti nelle pelli di capra, nell’unica stanza grande del villaggio, appena intiepidita dagli ultimi raggi del sole. “Om, Mani, Padme, Hum”, recita il “fiore di loto”, la preghiera che ringrazia Buddha per la sua infinita saggezza.
Nel piccolo villaggio di Poga Sumdo, incontro il medico tibetano Dhondup, che una volta al mese, percorrendo le difficili piste d’altura, da Leh raggiunge gli accampamenti nomadi dei Khampa, un’etnia che vive in tenda sulle montagne situate oltre i 5500 metri d’altezza. Chiedo di poterlo accompagnare.
Dhondup porta soccorso e cure, visita chi ne ha bisogno e dona medicine e vaccinazioni. Questa volta la sua missione è di vaccinare i bambini.
Il medico cerca anche di infondere sentimenti di speranza a questo popolo di rifugiati ai quali, dopo l’invasione cinese del Tibet, è proibito tornare nel loro paese.
La vita di questa gente è durissima, in presenza di un clima impossibile, con temperature che in questa stagione (novembre) raggiungono i trenta gradi sotto zero.

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Dharamsala, la little Lhasa dell’India

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a cura della Redazione

Arrivare a Dharamsala è quasi come uscire dall’India. A ragione viene chiamata Little Lhasa. Il caos delle città indiane è mitigato dalla pace buddista. È come se la presenza di Sua Santità il Dalai Lama, che vi si è rifugiato nel 1959, influisse sugli abitanti.
Qui vive la più importante comunità di esuli tibetani in India ed ha sede il parlamento tibetano in esilio. I più vecchi, settantenni rugosi che non abbandonano i vestiti tradizionali, hanno vissuto l’occupazione cinese del Tibet in prima persona. I più giovani, coloro che nascono e crescono in India, non hanno mai visto la terra dei loro padri.
Passeggiando a Dharamsala difficilmente si vedono i colorati sari delle donne indiane, ma l’attenzione viene catturata dal rosso dei vestiti dei monaci buddisti. Il tempo è scandito dai rintocchi delle campane del monastero che chiamano i religiosi in preghiera. E dal battito di mani mentre gli stessi monaci, la sera al tempio, dibattono sugli insegnamenti del buddismo.
Alzando gli occhi al cielo si vedono le colorate bandiere di preghiera che si stagliano contro il cielo. Sullo sfondo le nevi dei primi contrafforti himalayani ricordano agli esuli la loro patria.
Con un po’ di fortuna si può vedere il Dalai Lama e ricevere un po’ della sua pace interiore tramite il suo cenno di saluto. Oppure partecipare alle lezioni pubbliche che tiene quando non è in viaggio, sedendo a terra tra una moltitudine di monaci. Seguendo il sentiero attorno al tempio si cammina tra gli alberi sui quali sono appese centinaia di bandiere di preghiera. Lungo il tracciato i mantra sono scolpiti sulle rocce dipinte di bianco e sulle ruote di preghiera e ripetuti senza sosta dai monaci che le fanno girare. È facile, così, immergersi in una dimensione spirituale, meditativa e contemplativa.

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Ondaviva, il fascino di Trieste

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a cura della Redazione

Il filo sottile ma profondo che lega Trieste ad usi e costumi di vita quotidiana è indissolubilmente legato al mare, al vento, ai circoli nautici ed al mondo di chi vive il mare non solo come elemento naturale ma come filosofia di vita.Un omaggio al mondo della vela ed agli aspetti culturali, artistici e sociali che questa disciplina sportiva inevitabilmente coinvolge.
Una splendida Trieste protagonista indiscussa con i suoi palazzi che si trasformano in quinta teatrale, per godere del fascino che le regate, la passione per la vela e per il mare riescono a trasmettere.
Un legame tra i simboli marinareschi, le statue e gli alto rilievi che troneggiano sui palazzi nel cuore della città. Una città che svela la sua vera anima, fatta di magiche luci, profumi del mare e dal possente alito della bora.
Le innumerevoli pagine che sono state dedicate al mare, e tutte quelle scritte nel tempo da illustri viaggiatori o scrittori su Trieste oscillano tra sentimenti molto forti e contrastanti tra loro. Sono comunque pagine di grande suggestione ed intimo lirismo. Trieste ama celebrare il suo passato quale città porto per eccellenza dell’Impero Asburgico e si prepara a diventare una capitale d’area, a cavallo tra i nuovi confini che si stanno delineando tra i paesi del blocco centro europeo.
Trieste, città dei caffè, delle piazze, delle chiese e dei musei, ha celebrato un po’ tutti i suoi gioielli artistici e architettonici, ma il mare rimane la sua vera forza emotiva.Nel volume “Trieste città delle statue” Mara Rondi scrive che “una svariata molteplicità di culture, di gusti, di curiosità, di commerci e di genti, ha dato un’impronta indelebile a Trieste che ancor oggi si identifica nella varietà stessa dei suoi linguaggi e nelle sue trasversalità epocali”.
Passato, presente e futuro: un trinomio che Trieste porta avanti di pari passo nel suo processo di crescita. In questo contenitore urbano così complesso ma estremamente stimolante, le antiche architetture riportano agli splendori di una grande capitale dell’Impero Asburgico, la città - porto per eccellenza da cui salpavano i grandi velieri per poi ritornare carichi di merci e opere d’arte. Il futuro di Trieste sarà ancora una volta legato al mare così come lo è stato in passato.

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Baracoa, dove comincia Cuba

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a cura della Redazione

E’ bella Baracoa, ma è lontana da tutto. Sembra essere distante persino dalla stessa Cuba; ne è stata la prima capitale (1511-1514) ma successivamente e per lunghi anni è di fatto rimasta quasi completamente dimenticata.
La sua particolare posizione geografica ha senza dubbio contribuito in larga parte a tale esilio forzato; si trova infatti nell’estremità orientale dell’isola, in una piccola pianura affacciata sull’Atlantico, assediata da monti che giungono fino al mare.
Per scoprire Baracoa è necessario calarsi nella natura bellissima e selvaggia che la circonda, approfittando delle numerose escursioni che è possibile compiere nei dintorni. A cominciare da quella che conduce al “Rio Toa”, il più grande fiume di Cuba. Quindi a “El Yunque”, la montagna piatta simbolo di Baracoa, che gli abitanti chiamano la “isla de piedra”. A circa trenta chilometri dalla città, in direzione est, ecco il “Rio Yumurì”, uno dei molti della regione, che nel tratto finale scorre tra le imponenti pareti di un canyon eroso nel tempo dal suo stesso corso. Ancora verso est, si procede per circa cinquanta chilometri lungo una strada decisamente accidentata, fino alla “Punta Maisì”, il lembo più orientale dell’isola caraibica. Infine, a ovest della città, si incontra Playa Maguana, la più bella spiaggia in assoluto.
Non si renderebbe giustizia a Baracoa se si dimenticasse di segnalare che sorge in una regione straordinariamente bella e ancor oggi dalla natura quasi intatta.
E’ la parte di Cuba più ricca di verde, con boschi di legni pregiati quali il cedro e possiede la più alta percentuale di fauna e flora endemica.
Si incontrano gli “almiquì”, piccoli mammiferi insettivori, la “polinita picta”, una conchiglia terrestre considerata tra le più belle del mondo in quanto a colori; ancora, rare felci arborescenti.
L’inquinamento, speriamo per molto tempo ancora, è pressoché sconosciuto; i molti fiumi che arrivano dalle montagne sfociano puliti nel mare.
Baracoa, un piccolo paradiso. Forse un po’ “decentrato”, ma paradiso.

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La Fiesta de los Caballos del Vino

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a cura della Redazione

La festa dei Cavalli del Vino, che si tiene a Caravaca, nella provincia spagnola della Murcia, nasce come pura estrazione popolare mescolando realtà, leggenda, narrazione epica. La tradizione della festa è ambientata in pieno secolo XIII, quando Caravaca si trovava sul confine tra la Castiglia cristiana e il regno dei Mori di Granada e la presenza della Croce a Caravaca aveva già fama di protezione e miracolo.
Secondo la tradizione leggendaria si parla dell’assedio del castello la cui custodia era stata affidata all’Ordine dei Templari, durante gli anni 1265-1310.
I Mori del vicino regno di Granada intraprendono una spedizione punitiva e di saccheggio. In occasione di una di queste incursioni ammazzano molti cristiani e ne fanno prigionieri altri, anche se alcuni di essi riescono a rifugiarsi all’interno della fortezza. L’assedio viene condotto dai Mori ricorrendo ad ogni tipo di pressione, compresa quella di avvelenare i pozzi d’acqua facendo insorgere epidemie e accentuando i disagi per i cristiani feriti in combattimento.
E’ in questa fase che alcuni Templari, particolarmente coraggiosi, riescono ad eludere la sorveglianza dei Mori e arrivano nella località chiamata Campillo, distante qualche miglio e da allora denominata “Campillo de Los Caballeros”. Qui riempiono alcuni otri di vino e beffando nuovamente le linee dei musulmani, introducono la bevanda nel castello e immergono la reliquia della Croce nel liquido per benedirlo, dandolo poi in bevanda agli infermi assediati, che istantaneamente guariscono.La leggenda dell’assedio permane nella memoria popolare come gesta di coraggio e di fede. Allo stesso modo dei romanzi di “frontiera”, quella dei “Cavalli del Vino” si inserisce nel filone dell’epoca cavalleresca e della conquista musulmana.

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Thailandia

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a cura della Redazione

Lo scrittore inglese Joseph Conrad, nel suo romanzo “La linea d’ombra” così scrive della Thailandia e in particolare della sua capitale Bangkok: “…Un'estensione di case color marrone fatte di bambù, di stuoie, di foglie, in uno stile architettonico simile a quello della vegetazione nato dalla terra bruna sulle rive del fiume fangoso…”. La visita di Conrad a Bangkok risale all’anno 1888. Da allora, molta acqua del Chao Phraya è passata sotto i ponti della capitale thailandese. Oggi lo scrittore stenterebbe a riconoscerla, proiettata com’è, al pari di molte consorelle asiatiche, verso un futuro urbano sempre più verticale. L’antico Siam non è solo Krung Thep, nome thai che significa “Città degli Angeli”, come dimostrano le splendide immagini di Massimo Pacifico. Accanto ai palazzi, al fiume, al traffico caotico e variopinto, ecco la Thailandia della gente, dei templi, dei mestieri, dei contrasti fra tradizione e modernità. Fotografie per l’inizio di un viaggio. Per il momento, solo con la fantasia.